Di Shirto - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=65032742Di Shirto - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=65032742

La nuova vita di Giovanni Brusca

I patti si rispettano. Non c’è dubbio. Uno Stato, in questo caso quello italiano, deve rispettare il patto che ha sottoscritto con un boss. Giovanni Brusca avrà una nuova vita.

Parliamo dell’autore e mandante di più di centocinquanta efferati omicidi, fra cui quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e poi sciolto nell’acido a soli quattordici anni, nonché responsabile di aver azionato il congegno che fece esplodere cinque quintali di tritolo al chilometro 5 della A29, smembrando l’autostrada che conduce a Palermo, ponendo fine alla vita e all’opera di contrasto alla mafia del giudice Giovanni Falcone, ucciso insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta.

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Il luogo dove Giovanni Brusca si appostò per premere il telecomando.

Lo Stato ha rispettato i patti, ha dimostrato di non essere come “loro”, ha agito secondo legge.

Sono in molti a mettere in evidenza questo aspetto e a farne opera di divulgazione attraverso stampa, programmi televisivi, giornali e canali web. Lo Stato ha vinto, dicono.

E adesso a Giovanni Brusca spetta una vita nuova, una casa, un luogo sicuro, una scorta, uno stipendio da pentito ed un lavoro, ma soprattutto la garanzia di una vita tranquilla, con un nuovo nome ed una nuova identità che cancellerà la precedente, almeno agli occhi del contesto sociale che accoglierà la sua seconda vita, senza mai sapere chi sia davvero.

Le garanzie

Ai collaboratori di giustizia tanto si deve, a prescindere da quanto abbiano raccontato rispetto a ciò che potevano ancora dire, anche nel caso in cui avessero scelto di collaborare lo stretto necessario per vedersi garantito il diritto al fine pena e a tutti i “premi” annessi e connessi.

Garanzie e tutele che non ebbe Luigi Ilardo, l’uomo con un passato di capomafia che aveva deciso di finirla con quella vita e di collaborare con lo Stato portando gli uomini del ROS fino al covo di Bernardo Provenzano a Mezzojuso.

Ma in quel luogo quel giorno non avvenne nessuna irruzione, nessun arresto, nessuna ispezione e nessun colpo alla mafia.

Furono necessari altri undici anni prima che Bernardo Provenzano, uno dei boss mafiosi più ricercati, portasse luccicanti manette ai polsi e occupasse il proprio posto, tutto meritato, nelle patrie galere.

Al collaboratore di giustizia Luigi Ilardo toccò pagare con la vita il tentativo di riscatto: venne assassinato a Catania il 10 maggio del 1996 per mano della mafia che vendicava così il tradimento subito.

Lo Stato non seppe (non volle?) stendere il proprio mantello di tutele e garanzie su uno dei testimoni più preziosi che probabilmente avrebbe potuto contribuire a sciogliere molti nodi e svelare i misteri delle stragi di mafia. E invece la stessa morte di Ilardo diventa un mistero con molti punti oscuri ancora da chiarire.

I tempi nuovi

Ma dall’epoca delle stragi, da quei maledetti anni 90 con l’eco delle sirene delle forze dell’ordine per le strade siciliane (che disturbavano i cittadini), con le bombe piazzate e puntualmente esplose da sud a nord dell’Italia, con le vittime predestinate e quelle che erano vittime per caso, perché nel posto sbagliato al momento sbagliato, è passato tanto tempo.

Un tempo sufficiente a dimenticare. E’ tempo di cambiamenti: niente più indignazione popolare se non scoppiano bombe, niente più ergastolo ostativo, disumano e discriminatorio perché tutti hanno dei diritti, a meno che tu non sia extracomunitario e naufrago in mare, lì la condanna a morte è ammissibile e si decreta chiudendo i porti.

Oggi abbiamo altri problemi di cui occuparci e l’emergenza mafie non c’è più. Le mafie sono oggi un’altra cosa. Lo Stato forse pure. La memoria certo non va dispersa, ma convogliata, calendarizzata, concentra tutta in date ben precise. La memoria è un giorno dell’anno, forse due, giusto tre.

Succede così che, essendo la situazione molto migliorata nel Paese e non persistendo più nessuna emergenza criminalità, commercianti ed imprenditori non soffrano più l’accanimento di estorsori e clan locali, tanto da pagare le somme richieste senza farsi venire il dubbio di poter rifiutare e denunciare.

Sarà per questo che delle venti vittime di usura sono state solo tre ad avere accolto l’invito delle forze dell’ordine a collaborare alle indagini che hanno recentemente permesso alla guardia di finanza del comando provinciale di Palermo la confisca di beni per un valore di 3,5 milioni di euro a Giuseppe e Maurizio Sanfilippo, i due fratelli palermitani accusati di usura e ritenuti da anni i maggiori referenti del credito illegale a Palermo e provincia (indagini che si ricollegano all’operazione “The Uncle” iniziata nel 2011).

Tutto scorre. In tempi di pandemia e di difficoltà economiche, tutto scorre anche meglio di prima e gli usurai mafiosi si sostituiscono perfettamente allo Stato che ha emergenze ben peggiori alle quali pensare.

Cittadini di serie A, B, C…

Eppure, in questo Paese c’è ancora chi non ha sentito l’aria del cambiamento, la fine del pericolo mafie, qualcuno che non ha capito che non c’è più da preoccuparsi e distrattamente denuncia le minacce e il pizzo.

E lo fa pensando che, in quanto cittadino onesto, gli sia dovuto sostegno da parte delle istituzioni, anche economica se necessario, ma soprattutto protezione, perché la mafia continua ad avere buona memoria e a dedicarsi alle vendette esemplari per dare anche il buon esempio a tutti gli altri cittadini.

Non tutti sono il Cavalier Condorelli, il re dei torroncini, la cui denuncia ai suoi estorsori ha riscosso applausi e compiacimento.

Il suo volto ha invaso di recente le prime pagine dei giornali e ha meritato qualche apparizione televisiva, proprio per aver denunciato le richieste di pizzo facendo scattare 40 arresti e le manette per gli uomini dei clan legati alla famiglia Santapaola-Ercolano.

Per il Cavaliere Condorelli parole di stima da molti esponenti politici, grande risonanza mediatica e solidarietà dai cittadini.

“Sono molto contento della reazione che ho ricevuto – ha dichiarato Giuseppe Condorelli – soprattutto perché qui in azienda sono arrivate centinaia di telefonate da persone comuni che volevano manifestare stima. Ma se c’è ancora tutto questo stupore per la mia denuncia, è perché c’è ancora molto da fare sotto il profilo culturale”.

Ma non siamo tutti “cavalieri e principesse”. Lo stupore c’è stato, soprattutto da parte di coloro che dopo aver denunciato gli stessi fatti e aver pagato conseguenze pesantissime, non hanno assistito alle medesime reazioni di cui parla il Cavaliere Condorelli.

Di persone coraggiose che hanno denunciato minacce e tentativi di estorsione ne ho conosciute molte. Lo hanno fatto nel totale silenzio della stampa, spesso perdendo la serenità e qualche volta persino la propria casa, finita bruciata per ritorsione dei clan denunciati.

Ho conosciuto persone che non hanno ricevuto nulla più di una pacca sulla spalla per poi rimanere sole dopo le denunce, nell’attesa che la giustizia facesse il proprio corso. La comunità non ha fatto sentire la propria vicinanza, nè politici nè compaesani hanno fatto telefonate per congratularsi, ma è stato il silenzio a fare eco avvolgendo le loro vite e quelle dei loro familiari.

C’è chi ha visto le associazioni antiracket solo sulla carta, nell’elenco di chi si costituisce parte civile ai processi. C’è chi, a fine processo e a sentenza pronunciata, riceve persino un risarcimento di importo inferiore a quello percepito dalle associazioni antiracket.

C’è chi, per ragioni sconosciute, non rientra nel programma testimoni di giustizia e combatte la sua battaglia senza le tutele e la protezione necessaria e dovuta. C’è senso di solitudine e abbandono da parte delle istituzioni, una angoscia senza fine (un fine pena mai senza sconti né premi per buona condotta), una condizione che nessun cittadino onesto dovrebbe sopportare.

Il caso Pilliu

C’è la storia delle sorelle Pilliu raccontata nel libro “Io posso. Due donne contro la mafia” scritto da Pierfrancesco Diliberto (Pif) e Marco Lillo, una lunga storia dove la giustizia sembrerebbe trionfare e alle due sorelle vengono riconosciuti 780 mila euro di risarcimento per i danni subiti alle proprie abitazioni dalla costruzione abusiva di un condominio che puzza dei soldi della mafia.

Risarcimento che le sorelle Pilliu non hanno avuto e probabilmente non avranno mai. Ma lo Stato chiede comunque ad entrambe il pagamento del 3% di tasse sull’importo mai ricevuto. Che siano i proventi della vendita del libro ad aiutare le due donne a pagare il debito contratto con lo Stato è una vergogna.

E sì, i tempi sono cambiati. Le leggi vanno cambiate anch’esse, in nome dei diritti umani e della dignità di ogni uomo. Senza dimenticarne nessuno, però.

Dunque, buona nuova vita a Giovanni Brusca, meritata dopo 25 anni di ottima condotta in carcere e collaborazione con lo Stato che si auto proclama vincitore.

Lo Stato ha vinto e rispetta il suo patto. La parola “patto” risuona particolarmente quando la si accosta a “Stato” e “mafia”, ci ricorda che attendiamo ancora di conoscere verità. Noi cittadini italiani la pretendiamo.

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