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Riceviamo e pubblichiamo la lettera di Giuseppe, papà siciliano che affronta da anni la sua battaglia legale per vedersi riconosciuto il diritto di vivere pienamente la sua paternità. In questa lettera Giuseppe racconta di un sistema giudiziario che sembrerebbe perpetrare pregiudizi e discriminazioni nei confronti della figura paterna nelle cause di divorzio e per l’affidamento dei minori.

Giuseppe, papà siciliano: “Il padre è visto da una certa giurisprudenza come un mero accessorio, inutile nel processo educativo dei figli, importante solo per elargire emolumenti”

Ho 41 anni, sono un operaio specializzato, padre di un bellissimo bambino. Da 3 anni vivo il calvario prima della separazione ed ora del divorzio giudiziale. Per la prima volta mi espongo perché ho deciso di non aver più paura, sebbene mi costi molto mettermi così a nudo davanti ad altre persone, raccontare e denunciare un sistema basato sul pregiudizio verso la paternità.

Prima che come dovere di cittadino, lo sento soprattutto dovere di padre che lotta per un futuro diverso per il proprio figlio. Un padre che ha costruito una famiglia, che ha voluto il proprio figlio e che avrebbe voluto condividere con lui il proprio tempo per educarlo ed accompagnarlo nella sua esistenza negli anni più importanti e significativi, un istante dopo la separazione si trasforma improvvisamente in un fuoco fecondatore senza importanza, la sua paternità diventa un terrificante, inumano, insopportabile “diritto di visita” nonché uno sportello automatico che distribuisce vitalizi spesso così pesanti da spezzarne la dignità e la visione di un progetto futuro per sé e per il proprio figlio.

La volontà di essere padre a tutto tondo e di avere con me il proprio figlio la metà del tempo, occupandomi direttamente di provvedere alle sue esigenze, si è scontrata con la peggiore espressione di pregiudizio verso un padre. Tale pregiudizio è stato chiaramente espresso in diverse occasioni e sottolineato in alcune frasi delle memorie della controparte nelle quali il desiderio e l’impegno di avere con sé il proprio figlio e occuparsi direttamente di lui “rientrerebbe in uno stereotipo molto comune tra i padri separati che chiedono di trascorrere più tempo con i figli ed il mantenimento in forma diretta solamente per evitare di contribuire con un assegno periodico”.

Queste espressioni sottolineano e dimostrano appieno come la volontà di considerare il padre un mero accessorio, inutile nel processo educativo e incapace di provvedere direttamente ai figli, sia radicata e proposta come aberrante consuetudine. Il padre è visto da una certa giurisprudenza (per fortuna non dalla legge, ce lo ricorda l’Unione Europea) come un elemento secondario nella cura e nell’educazione dei figli, importante solo per elargire emolumenti.

E’ evidente che il ruolo di padre impegnato e presente e un affido condiviso con mantenimento diretto sia una spina nel fianco degli avvocati matrimonialisti. L’equilibrio fra le parti non genera conflitto ma soprattutto non genera reddito per l’avvocato. Lo stereotipo piuttosto comune sembra essere invece quello di alimentare conflitto e usare i figli in modo strumentale per trarre benefici di tipo patrimoniale. Pur di “vincere” non si tiene infatti conto degli enormi danni che si possono arrecare ai figli ed al delicato tessuto affettivo insito nella relazione con i genitori e soprattutto con la figura paterna.

L’esperienza che sto vivendo e condividendo con tanti altri padri separati mi porta a pensare che esista una sorta di “intesa” fra le diverse figure che si occupano di giustizia familiare. Nascondendosi dietro al refrain “i bambini non sono pacchi postali”, evitano di confrontarsi seriamente con nuovi modelli di reale “condivisione” e di gestione dei conflitti ma soprattutto con la reale volontà della legge.

Quali di queste figure potrà mai affermare che per un bambino, qualora le condizioni lo permettano, è meglio un luogo piuttosto che una relazione con il suo genitore? Sarei felice di avere anche un solo riferimento pedagogico…

L’atteggiamento ostile verso i padri così evidente nelle sentenze (a volte vere e proprie esecuzioni) si esplicita anche nella stessa procedura. L’iter burocratico ed i tempi trasformano un servizio dovuto al cittadino in atti di vera e propria violenza; ecco di seguito un piccolo “campionario” direttamente vissuto:
• Ai padri sono negati in partenza dal sistema i pari diritti e le opportunità concesse alle madri sia in termini di tempo con i figli che economiche.
• Mobbing genitoriale, ovvero abuso già conosciuto come PAS (Parental Alienation Syndrome), nota come sindrome da alienazione parentale. Una dinamica familiare psicologico-disfunzionale, che riguarda essenzialmente i figli minori implicati in vicende come la mia. Il fenomeno consiste in un vero e proprio “Lavaggio del cervello” dei figli perpetrato dal genitore alienante (madre in questo caso) ai danni del genitore alienato (padre nonché io). Realizzato mediante una campagna denigratoria fatta di odio, disprezzo e rabbia, senza un giustificato motivo, a screditare ed allontanare in questo caso la mia persona.

La prima proposta di trascorrere più tempo con mio figlio compie ormai 3 anni e, in questi giorni, ricevuto l’ennesimo rinvio del tribunale, mi rendo conto che la sentenza è già stata scritta dal tempo. Quale opinione avremmo e che sentimenti susciterebbe in noi un medico che aspetta la morte del paziente prima di prescrivergli la cura? Non è possibile pensare che questa forma di cancro sociale che devasta le famiglie ed ha evidenti ripercussioni sulle relazioni uomo/donna e sull’educazione dei ragazzi possa continuare con il tacito assenso fra gli addetti. A quale modello sociale ci dobbiamo ispirare e quale modello sociale possiamo aspettarci se il luogo che per definizione è deputato alla giustizia e all’equilibrio genera egli stesso violenza e discriminazione?

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