Di Salvatore Azzuppardi Zappalà
DOMENICO era allievo granatiere al Comando Supremo del Regio Esercito, a Monterotondo, vicino Roma. «Il nove mattina, [mentre noi speravamo nell’arrivo degli americani], sono stato svegliato dal rumore degli apparecchi. Vrrmmm, mi alzo, m’affaccio, c’era il cielo coperto di aerei tedeschi, e paracadutisti, tutti ragazzi di diciotto, vent’anni. Mentre scendevano sparavano.»
Le cronache dell’epoca ci dicono che all’alba del 9 settembre cinquanta aerei Junker 52, della Luftwaffe, lanciarono ottocento paracadutisti sulla zona di Monterotondo, con l’intento di catturare l’intero Stato Maggiore italiano, ma i pesci grossi erano già scappati.
Nei diciannove mesi successivi Domenico visse una serie di incredibili avventure, rischiando più volte la vita e la deportazione in Germania, e solo dopo la fine della guerra poté tornare a casa.
TURI era sottufficiale presso la base aerea di San Giorgio Piacentino, utilizzata dalla Luftwaffe, per questo alla notizia dell’armistizio fu subito catturato dai tedeschi i quali proposero agli ottocento soldati italiani di collaborare con loro o subire una durissima prigionia.
Turi accettò, ripromettendosi di approfittare della prima occasione per scappare. Poiché parlava il tedesco aveva fatto amicizia con un soldato austriaco, al quale chiese di aiutarlo a fuggire, ma questi ovviamente rifiutò. Lui lo accusò di tradire la loro amicizia e lo ripudiò come amico.
Per alcuni giorni l’austriaco visse il tormento della scelta fra la fedeltà all’esercito di quella che in fondo non era la sua vera patria e la lealtà verso l’amico prigioniero, finché una mattina lo raggiunse dicendogli che aveva la possibilità di farlo scappare.
Chiamato un amico italiano, si incamminarono insieme all’austriaco e raggiunsero il paese, dove si separarono, fingendo una fuga spontanea.
«Arrivati alle porte del paese, che era a poche centinaia di metri, io vedo un contadino che aveva la casa lì vicino, allora ho detto: “senta, mi dà qualcosa di borghese?” Allora quello “subito”, e mi ha dato la sua giacca».
Superato a piedi l’Appennino e raggiunta Roma con mezzi di fortuna, riuscì fortunosamente a superare la linea del fronte e dopo alcune settimane arrivò a casa, a Catania. Sporco, vestito alla meno peggio e con barba e capelli lunghi, dovette faticare non poco a farsi riconoscere da sua madre, che lo aveva preso per uno straccione.
SARINO prestava servizio come autiere (guidatore di camion) nel Montenegro. Dopo il dissolvimento del suo reparto a seguito dell’Armistizio, si unì ai partigiani locali che combattevano contro i nazisti. Pochi giorni dopo fu dato per disperso dopo un combattimento e da allora di lui non si seppe più nulla.
Se per i giovani in età di leva la guerra fu una tragica esperienza, che in troppi non poterono mai narrare, per i più giovani spesso si tramutò in gioco.
GIOVANNI era un ragazzino di dodici anni, che viveva con la famiglia in una cittadina in provincia di Cuneo, in una casa ubicata a pochi passi da un deposito di armi dei tedeschi.
Nei primi mesi di occupazione questo deposito non era particolarmente sorvegliato, così Giovanni e un suo compagno di giochi ne fecero teatro delle loro incursioni, e – attraverso una finestra – si introducevano all’interno del deposito per sgraffignare bombe a mano e altro materiale esplosivo da utilizzare per andare a pescare di frodo nel fiume Tanaro e poi vendere il pescato a ristoranti e trattorie della zona.
La cosa però non durò molto: quando i tedeschi si accorsero degli “ammanchi” scoprirono subito chi erano i colpevoli (che nel frattempo erano riparati presso un gruppo di partigiani della zona) e per “convincerli” a consegnarsi presero in ostaggio i rispettivi genitori, minacciando di fucilarli se loro non si fossero presentati.
Fortunatamente il fratello maggiore di Giovanni riuscì convincere i tedeschi che l’esplosivo serviva “solo” per la pesca.
Tornati al paese, i due bombaroli si presentarono ai tedeschi, i quali, benché inizialmente increduli, si resero conto di avere a che fare effettivamente con dei ragazzini e, “dopo una serie di sonori schiaffoni”, li lasciarono andare.
Il risultato di questa esperienza non fu la fine delle incursioni, ma solo una maggiore cautela nel rifornirsi di esplosivo, in un deposito più distante e meno sorvegliato.
Nelle loro scorribande per la campagna circostante Giovanni e i suoi amici avevano fatto amicizia con un fisarmonicista cieco, che spesso veniva chiamato da tedeschi e fascisti per suonare alle loro feste. Una volta si aggregarono anche Giovanni e un suo amico, Mariuccio, che essendo poco più che bambini non destarono sospetti.
Intrufolatisi in questo modo, ne approfittarono per dedicarsi alla loro attività preferita, il furto di bombe a mano da utilizzare per la pesca.
Il sistema era infallibile: infatti le bombe vennero nascoste nelle tasche del fisarmonicista cieco, al quale fu detto che si trattava di arance da portare a casa di nascosto. «Mi sembrano un po’ troppo pesanti!» osservò l’uomo, «Vuoi mettere il peso delle arance tedesche con quelle italiane?» rispose pronto Giovanni. A fine serata, come amici del fisarmonicista, vennero addirittura accompagnati dai tedeschi fino a casa, sfuggendo al coprifuoco.