Il 10 giugno 1981, un piccolo borgo alle porte di Roma, Vermicino, divenne luogo di una tragedia che l’Italia non potrà mai dimenticare. Lì, in una campagna silenziosa e anonima, un bambino di sei anni, Alfredo Rampi, cadde in un pozzo artesiano profondo ottanta metri. Quella che avrebbe potuto essere una cronaca locale si trasformò in uno degli eventi più drammatici dell’Italia. Tre giorni di speranza, ansia e dolore, raccontati in diretta dalla televisione pubblica, che tennero incollati agli schermi milioni di italiani. La tragedia di Alfredino fu la prima grande “diretta del dolore” della storia televisiva nazionale, segnando un punto di svolta nel rapporto tra media, opinione pubblica e gestione delle emergenze.
Una tragedia annunciata in diretta
La sera del 10 giugno, Alfredo stava tornando a casa dopo una passeggiata con il padre. Imboccò un sentiero nella campagna di Vermicino e, per cause mai del tutto chiarite, precipitò in un pozzo stretto e profondo, privo di protezioni. I genitori iniziarono subito le ricerche e, solo intorno a mezzanotte, i soccorritori individuarono l’imboccatura del pozzo. Da lì, una lotta contro il tempo e contro i limiti tecnici e organizzativi delle strutture di emergenza dell’epoca. Le immagini delle operazioni di soccorso iniziarono a essere trasmesse dalla Rai nella tarda mattinata dell’11 giugno. Inizialmente si pensava a un salvataggio rapido. Nessuno poteva immaginare che quella diretta sarebbe durata più di diciassette ore, coinvolgendo emotivamente un’intera nazione. In quelle ore convulse, volontari, speleologi, vigili del fuoco, tecnici e persino il Presidente della Repubblica Sandro Pertini si alternarono accanto al pozzo, mentre la voce flebile di Alfredino risaliva da decine di metri sotto terra, alimentando la speranza.
L’Italia con il fiato sospeso
La televisione trasformò Alfredino in un figlio per tutti. Famiglie intere seguivano la vicenda in un silenzio commosso, come davanti a un rito collettivo. La presenza costante delle telecamere, la narrazione partecipe dei giornalisti, il volto teso dei soccorritori: tutto contribuiva a creare una drammaturgia tragica in tempo reale. Ma più passavano le ore, più la speranza lasciava spazio allo sconforto. Tentativi disperati di salvataggio si susseguirono: tra questi, quello di Angelo Licheri, piccolo di statura, che fu calato nel pozzo a testa in giù e tentò invano di agganciare il bambino. Le sue parole di conforto rimbalzavano dai microfoni ai salotti italiani: “Ti porterò a pescare, ti comprerò una bicicletta…”. Ma ogni sforzo fu vano. Il 13 giugno, all’alba, dopo oltre 60 ore di agonia, Alfredo Rampi fu dichiarato morto.
Il commento della stampa e la coscienza collettiva
I giornali del tempo dedicarono all’evento titoli a tutta pagina, editoriali straziati, analisi e polemiche. Emilio Fede, allora direttore del TG1, disse: “Se ci fosse stato un colpo di Stato in quelle ore, la gente avrebbe chiesto comunque di continuare a vedere Vermicino”. Una frase che restituisce l’intensità del coinvolgimento emotivo nazionale.
Il giornalista Giancarlo Santalmassi, nel TG2 speciale che annunciò la morte di Alfredino, sintetizzò il sentimento collettivo con parole memorabili: “Volevamo vedere un fatto di vita, e abbiamo visto un fatto di morte… È stata la registrazione di una sconfitta”.
Alcune testate, come Famiglia Cristiana, denunciarono i rischi della spettacolarizzazione del dolore, osservando come attorno al pozzo si fosse creato un “circo mediatico”. Anche all’estero, giornali come El País riportarono lo sgomento e l’amarezza degli italiani, tra solidarietà e rabbia per l’improvvisazione dei soccorsi.
Un’eredità che ci riguarda tutti
La tragedia di Vermicino fu il catalizzatore di profondi cambiamenti. Prima di tutto, rivelò l’assenza di un sistema di Protezione Civile efficace. Fu grazie all’impegno della madre di Alfredino, Franca Rampi, e del commissario Zamberletti che nacque il Centro Alfredo Rampi e, poco dopo, la moderna Protezione Civile italiana. Una struttura capace di coordinare mezzi e persone nelle emergenze, nata sulle ceneri di quell’incapacità operativa mostrata a Vermicino.
In secondo luogo, cambiò il modo in cui la televisione affrontava la tragedia. Vermicino segnò l’inizio della cosiddetta “TV del dolore”, aprendo una riflessione ancora attuale sui confini tra informazione e rispetto della sofferenza. “Si può andare sulla Luna, ma non si può salvare un bambino caduto in un pozzo”. Sono le parole di Leonardo Sciascia, una frase che riassume il dolore e lo smarrimento di un intero Paese.
Oggi, a distanza di oltre quarant’anni, la vicenda di Alfredino Rampi rimane impressa nella memoria collettiva. Non solo per il dramma umano, ma per ciò che ha rappresentato nella crescita civile del Paese. Alfredino fu il figlio di tutti e la sua morte fu la sconfitta di un sistema impreparato.
Chi era Angelo Licheri, l’“Angelo di Vermicino”

Angelo Licheri è passato alla storia come l’eroe silenzioso e coraggioso che il 12 giugno 1981 si fece calare volontariamente in un pozzo artesiano a Vermicino, nel tentativo disperato di salvare il piccolo Alfredino Rampi, rimasto intrappolato a sessanta metri di profondità. Aveva 36 anni, una corporatura esile, tre figli, un lavoro da fattorino in una tipografia di Roma e un’origine umile: era nato a Gavoi, in provincia di Nuoro, in Sardegna.
Quella notte, Licheri si offrì di scendere nel pozzo dopo il fallimento dei tentativi ufficiali. Davanti ai vigili del fuoco disse: “Non soffro di nulla, non mi dica nulla, mi lasci solo scendere”. Con una corda legata alla vita, venne calato nella cavità oscura, sapendo che non avrebbe avuto nessuna garanzia di risalire illeso. Per circa quaranta minuti tentò con tutte le sue forze di liberare il bambino, riuscendo persino a toccarlo, a pulirgli la bocca e gli occhi, e a parlargli con dolcezza: “Ti compro una bicicletta appena usciamo da qui”, gli sussurrava.
Tentò di posizionare l’imbracatura, ma gli strattoni dati alla fune dai soccorritori vanificarono tutto. Il piccolo Alfredino non reagì neanche quando, nel disperato tentativo di salvarlo, gli fu spezzato un polso. “Mi sono sentito in colpa, ma lui non si è lamentato”, raccontò più tardi Licheri, segnato da quell’esperienza per tutta la vita. Prima di risalire, sapendo che non avrebbe potuto salvarlo, gli lanciò un bacio.
Nonostante l’eroismo, Licheri non ricevette alcuna medaglia, né un sostegno pubblico o privato. La sua vita, già modesta, si svolse lontano dai riflettori, in condizioni di indigenza e solitudine. “Una volta spente le telecamere fu dimenticato dalle istituzioni.
Negli ultimi anni fu costretto su una sedia a rotelle a causa di un’amputazione e visse in una casa di riposo a Nettuno, vicino Roma. Morì il 18 ottobre 2021 a 77 anni. Il suo gesto, trasmesso in diretta televisiva in uno dei momenti più drammatici della storia della TV italiana, rimane un simbolo di altruismo e di umanità. Per molti, Angelo Licheri è e resterà l’“Angelo di Vermicino”.
Un murales a ricordo
Nel maggio del 2022 è stato realizzato un murale commemorativo di circa 70 metri quadrati in onore di Alfredo Rampi. L’opera si trova a Roma, nel quartiere Garbatella, in via Rocco da Cesinale n. 2. Accanto al murale è stata affissa una targhetta con una dedica toccante: “La città di Roma per te, Alfredo, affinché la tua storia continui ad insegnare e a trasmettere i valori della legalità, della solidarietà e l’importanza delle competenze. Grazie a te è nata la Protezione Civile, oggi al fianco di tutte e tutti noi con incessante impegno. Grazie Alfredo”.
Sulla stessa targhetta, accanto al nome di Alfredo, è raffigurato anche Mazinga Z, il celebre robot dei cartoni animati, simbolo dell’infanzia e della speranza.
