di Salvatore Azzuppardi Zappalà
Un giorno, al corso su tecniche di memoria che seguivo fu chiesto ai partecipanti di narrare la trama di un film che ci era particolarmente piaciuto. Non ebbi esitazioni nel pensare a un film mai girato, ma che è impresso a fuoco nella mia mente (e nel mio cuore).
Il film inizia con una scritta bianca su fondo nero: “1940”, mentre le note e i versi iniziali dell’omonimo brano di Francesco De Gregori – “♫ mia madre aspetta l’autobus, nell’estate cominciata da poco …” – fanno da sottofondo a scene di vita quotidiana.
La tranquilla normalità evocata da quelle immagini è improvvisamente interrotta da quelle seguenti, che mostrano piazza Venezia gremita di gente e Mussolini che dal fatale balcone annuncia che “l’ora segnata dal destino è giunta”.
Subito dopo, mentre De Gregori canta che “♫ l’uomo coi baffi … è arrivato a Parigi”, si vede Hitler camminare tronfio, con lo sfondo della Tour Eiffel.
Infine, in sincronia col testo della canzone – “♫ i soldati bevono birra e corteggiamo donne francesi” – scorrono immagini di soldati italiani che “conquistano” la Francia pugnalata a tradimento (“♫ oramai questa terra è loro”).
Sfumate queste immagini, appare un’altra scritta, “Tre anni dopo”, e si vede un uomo sulla cinquantina che, con un fischio modulato, chiama il figlio diciannovenne che giocava a pallone davanti a casa, per consegnargli la temuta cartolina precetto.
“In nome di Vittorio Emanuele III, re d’Italia, imperatore d’Etiopia …” Domenico doveva presentarsi il dieci maggio al Distretto Militare di Catania.
Seguono filmati tratti dai cinegiornali, che mostrano in sequenza le tre date che hanno scandito, con un drammatico crescendo, il 1943: il 10 luglio, quando gli angloamericani sbarcarono in Sicilia, senza essere fermati sul bagnasciuga, contrariamente a quanto aveva assicurato il sedicente duce; il 25 dello stesso mese, quando Mussolini fu destituito e infine l’8 settembre, quando si consumò la prima parte del dramma e nuove tragedie si prepararono.
Dopo di che ritroviamo Domenico che – sorpreso dall’armistizio nei pressi di Roma – come tutti gli altri soldati italiani si sente abbandonato dai superiori e non sa che pesci pigliare.
Non riuscendo a trovare mezzi di trasporto per la Sicilia, decide di andare verso nord. Arriva a Milano, poi si sposta a Torino, dove può contare sull’aiuto di due zie, e comincia a vivere una serie di avventure che hanno dell’incredibile.
Scampato miracolosamente prima alla deportazione in Germania, poi alla fucilazione per mano di partigiani, dopo la Liberazione Domenico riesce finalmente a intraprendere un viaggio avventuroso che dovrebbe farlo arrivare a casa.
In quegli stessi giorni, a Catania, suo padre annuncia alla famiglia: “vado a cercare mio figlio!” e parte con la speranza di ritrovare quel figlio di cui da quasi tre anni non si avevano notizie.
Non era la prima volta che ci provava, perché dopo la liberazione della Capitale, l’anno prima, aveva fatto due viaggi infruttuosi a Roma, ultima sede conosciuta di Domenico. Così ora, finita la guerra anche al Nord, riparte, seguendo l’istinto che gli dice che il figlio, dopo l’8 settembre, doveva avere cercato rifugio dalle sue sorelle, a Torino.
A questo punto sullo schermo appare la sagoma dell’Italia, con due puntini rossi in movimento: uno che da Torino va verso sud, l’altro che da Catania si dirige verso nord.
In trasparenza filmati dell’Istituto Luce mostrano masse di soldati e civili che attraversano il Paese
con mezzi di fortuna. Sembra di vederle dal vivo, queste masse di giovani che per due anni avevano vissuto fra i pericoli, senza notizie dei propri cari, con una voglia pazzesca di rivederli, e la frenesia di tornare a casa che gli dà la forza di andare avanti malgrado gli stenti.
Intanto i due puntini rossi convergono su Roma, dove si incontrano e, nella bolgia di una stazione ferroviaria, rivediamo il padre di Domenico, che mostra una foto del figlio a chiunque riesca a bloccare, chiedendo se lo conoscono.
Fra la folla Domenico nota l’uomo con la foto, e benché questi gli dia le spalle, lo riconosce immediatamente come suo padre, urla per chiamarlo e lo raggiunge. I due si abbracciano piangendo, e l’immagine sfuma.
Ma il film non finisce qua, perché appare una scritta: “Venticinque anni dopo” e la scena si sposta in una stanza di ospedale.
Il caso volle che Domenico fosse l’unico dei figli presente al momento della morte del padre, e ci piace pensare che lo salutò per l’ultima volta con la stessa tenerezza di quell’abbraccio miracoloso alla stazione di Roma.