di Patrizia Lo Bue
Si sviluppavano basse, scomposte, articolate in braccia costituite da pale ricoperte da spine, numerose spine pungenti e posizionate quasi in una difensiva di guerra. Crescevano selvagge tra rocce, muretti in pietra, rovi e sterpaglie in quell’agro collinare, abbandonato e arso da un sole accecante che splendeva implacabile in un cielo blu privo di nuvole. Grovigli di pale verdi resistenti a tutto, cresciute senza un ordine preciso che si moltiplicavano lungo tutto il viottolo acciottolato, in fondo al quale si trovava la casa, una vecchia abitazione lasciata sola molti anni, nel silenzio di quelle terre abbandonate, tra carrubi e olivi e alle intemperie di una natura poco clemente. Nella facciata in pietra dell’abitazione, si aprivano due grandi finestre e il portone in legno scuro, ormai logoro, divideva in due metà simmetriche il prospetto di entrata.
Quella mattina, una come tante, il sole sorgendo, illuminò con la sua luce, anche quella piccola terra a ridosso del mare, accendendo il colore giallo delle erbe secche e il verde cupo dei fichi d’india che preparavano, tra spine e arbusti, pale e rovi, coloratissimi e gustosi frutti.
Il portone si aprì cigolando per la ruggine e uscì un uomo, di circa cinquantanni, alto quanto il portone e trascurato come l’ambiente che lo circondava. Come ogni mattina si recava sulla spiaggia a fare finta di pescare, in realtà stava lì ad ammirare il mare e a pensare, a ricordare, a ritrovare una identità che era stata cancellata e recuperare una memoria che potesse colmare il vuoto che si trascinava dentro da troppi anni.
Percorse un viottolo ricoperto di ciottoli e terriccio che conduceva alla spiaggia, un lembo di sabbia gialla solitamente deserta o praticata da poche persone che, come lui, cercavano tranquillità.
Rivedeva sé stesso vent’anni prima mentre partiva per l’ America, una fuga da quei luoghi dove il lavoro scarseggiava e in fuga da un padre tirannico e una madre inesistente.
– Sei un buono a nulla, un incapace! – era la frase che quel padre ignorante e maligno non faceva che ripetergli. Le vessazioni erano talmente tante che avevano finito per fargli pensare di essere sbagliato, inaffidabile, stupido. Era fuggito via da sé stesso e da quei luoghi di disperazione, di arretratezza, di prevaricazione.
Erano stati anni vivaci nella multietnica New York e nel quartiere dei suoi connazionali, una giungla umana sconosciuta e anche di malaffare in cui si era presto battuto per farsi strada, per trovare denaro in tutti i modi, con sotterfugi che aveva subito imparato, anche con imbrogli e intrallazzi. Era divenuto velocemente ricco e viveva in una bella casa, tuttavia un senso di scontento lo tormentava, rendendolo irrequieto. Non riusciva ad avere una relazione stabile, pur essendo circondato da donne, frequentava locali notturni bevendo sino ad ubriacarsi e trascorreva, giocando a carte, notti intere. Spendeva a piene mani e la sua fortuna lentamente aveva iniziato diminuire. Si sentiva come un guscio vuoto, senza passato e senza presente e si rendeva conto che la sua fortuna l’aveva costruita sul nulla, senza programmi, senza contenuti, piuttosto sull’imbroglio.
Le parole del padre gli martellavano la mente come una ossessione, specie nelle ore notturne: – Che uomo sei? Non sai fare nulla, sei un inetto! – E sempre così. Si svegliava spesso nel cuore della notte affannato, oppresso, come se gli mancasse l’aria. Allora si alzava e beveva fino a istupidirsi e infine piombava in un sonno simile ad una morte buia e priva di pensieri.
Gli giunse la notizia della morte di suo padre, che visse, vergognandosi, come una liberazione, mentre la madre, con soldi che lui inviava, si trovava ospite in un ricovero per anziani, in totale assenza di attività mentale. Non riconosceva nessuno, necessitava di accudimento continuo ed era trasportata con la sedia a rotelle.
Samuele aveva raggiunto la ricchezza , ma aveva anche perso molto. Affrontò un periodo di terapia per superare la dipendenza dall’alcool e poi con quel poco che gli era rimasto decise di rientrare in Sicilia.
Adesso viveva nella sua vecchia casa e l’unica cosa che gli riusciva era recarsi a pescare, ammirare tramonti e stare a riflettere.
Seduto su uno scoglio in prossimità della battigia e con la lenza in mano, Samuele stava lì, simile ad un gabbiano incapace di volare e in contemplazione, senza accorgersi di una presenza silenziosa che si era avvicinata alla sua postazione, posizionando un piccolo cavalletto, su cui era appoggiata sulla mensola, una tavolozza di colori. A dipingere la tela, poggiata sul cavalletto, era una donna non più giovane, che conservava una bellezza che con gli anni si era ammorbidita, donandole un fascino particolare. I lunghi capelli biondi erano stati raccolti in cima al capo e la coda scendeva attorcigliata sulle spalle. Con i grandi occhi chiari e cangianti guardava, con un misto di curiosità e interesse, Samuele che stava quasi immobile e quella lenza sempre ferma. La donna sorrise e, non riuscendo a trattenersi, gli chiese con accento inglese:
– Pensate che questo sia il posto giusto per prendere pesci?-
Samuele, sembrò svegliarsi dal torpore in cui era sprofondato e sorrise alla donna, rispondendo:
– Infatti non mi importa nulla di pescare, anzi se dovessi prendere un pesce lo rimetterei in mare.-
– Che significa allora?-
– Nulla, faccio finta di far qualcosa e sto qui a rilassarmi-
– Oh, capisco, scusate non volevo essere impicciona- rispose imbarazzata la donna.
– Ma no, tranquilla, non mi ha disturbato- poi guardando l’attrezzatura che la donna aveva con sé, chiese- Voi invece dipingete ?-
– Si, amo molto dipingere i paesaggi marini. Trovo che in Sicilia siano splendidi, solari, multiformi. In Inghilterra i paesaggi sono belli in modo diverso, piuttosto tempestosi e col cielo quasi sempre grigio.-
Continuarono a parlare raccontando di sé con naturalezza e senza accorgersene, nacque una amicizia. Con il passare dei giorni l’amicizia si trasformò in un amore che per Samuele era una emozionante novità, poiché non lo aveva mai provato.
Linda gli raccontò del suo primo matrimonio finito e della sua fatica per ricominciare. Aveva trovato infine interesse per la pittura e adesso le sue tele erano abbastanza conosciute, senza dire che organizzava esposizioni dei suoi quadri con buoni risultati.
Un giorno Samuele la condusse nella sua casa e Linda rimase stupita da quell’abbandono.
– Ma perché é cosi ridotto questo posto? –
– Il posto riflette me stesso, Linda, io sono così, mio padre aveva ragione.-
– Ma cosa dici?- gridò Linda
L’uomo allora, con tono grave, le raccontò della sua famiglia e di quel padre che trovava educativo umiliarlo continuamente.
– E’ lui che ti ha ridotto così, lui ad essere sbagliato! Ti ha ferito, ti ha distrutto psicologicamente. Ma se vuoi puoi ricominciare.
– Come? – rispose lui con voce smarrita.
– Intanto iniziamo a ripulire. Questo posto è meraviglioso, ma va ripulito da tutto quello che ne offusca la bellezza.-
Si misero con impegno a lavorare, iniziando dalla terra. Nella foga Samuele si accinse a stroncare i fico d’india , ma Linda lo fermò: – Ma no! non vedi che pianta particolare, che frutti colorati. Sono bellissimi!-
Per Samuele, ciò che per anni gli era sembrato brutto, attraverso gli occhi di Linda, diveniva bello e interessante. In pochi giorni, stanchi ma soddisfatti, ammirarono il posto ormai trasformato, poi dedicarono il loro tempo alla casa e infine anche Samuele iniziò ad avere più cura di sé stesso.
Le raccontò della sua vita vuota in America e del suo problema con l’alcool e della sua disperazione.
Con gentilezza Linda lo convinse a sottoporsi a sedute di psicoterapia presso uno specialista, che diedero presto risultati positivi. Quella oppressione di dolore si allontanava per fare spazio alla speranza e alla fiducia. Aveva perso molti anni come una foglia sbattuta dal vento e adesso giunto alla soglia dei cinquantanni iniziava a vedere sé stesso, chi fosse veramente, a capire cosa realmente preferiva fare.
Linda lasciò l’appartamento che aveva preso in affitto e si trasferì da Samuele per iniziare insieme una nuova esistenza.
Con il tempo e il susseguirsi delle albe e dei tramonti, Samuele cominciò a provare pietà per quell’uomo, suo padre, che lo aveva molto tormentato e iniziò a far visita regolarmente a quella donna, quell’ombra che era stata sua madre. Andò a trovarla presso l’ istituto che la ospitava, insieme a Linda, con una certa regolarità, prendendole ogni volta la mano e parlandole con gentilezza, una gentilezza che sua madre conosceva poco. In un giorno di primavera, nella grande stanza di ricevimento poco illuminata dell’edificio, la donna seduta sulla sedia a rotelle e ormai avanti negli anni, devastata dalla vita e dalla malattia, guardò con attenzione suo figlio Samuele, quasi fissandolo. Sembrava che cercasse di mettere a fuoco immagini e ricordi che debolmente sembravano affiorare dal buio della sua mente. Infine, con una strana luce che le illuminava il viso, gli sfiorò la mano e gli sorrise.
PATRIZIA LO BUE ama molto i libri, la storia, l’ arte, la natura e gli animali. Vive a Sciacca, città siciliana sul mare, e da qualche anno scrive racconti, rievocando storie vere ma anche di fantasia ambientate spesso in territorio siciliano. Numerose le pubblicazioni di racconti in antologie e gli attestati di merito ricevuti in seguito alla partecipazione a concorsi letterari. Le è stato pubblicato “La ragazza dagli occhi verdi ed altri racconti” dalla casa editrice Montag, in cui sono raccolti in antologia i suoi primi lavori, il romanzo in Ebook “L’Isola Scomparsa” dalla casa editrice Elison Publishing.