OLTRE LA CRONACA, LE RIFLESSIONI SUL SISTEMA SANITARIO AMERICANO
L’omicidio a New York di Brian Thompson, Amministratore Delegato della UnitedHealthCare, una delle principali compagnie di assicurazione sanitarie degli Stati Uniti, è stato trattato dalla stampa italiana come un qualunque caso di cronaca nera, del quale si è parlato solo per l’importanza della vittima.
È stato, giustamente, condannato l’uso della violenza per quella che evidentemente è una vendetta personale, e sono state stigmatizzate le manifestazioni di solidarietà e simpatia per il presunto assassino, Luigi Mangione, che sui social media americani è stato trattato quasi come un novello Robin Hood.
Se andiamo oltre la semplice cronaca nera, però, quanto accaduto ha aperto una finestra sul sistema sanitario statunitense, distante anni luce da quelli a cui noi europei – chi meglio, chi peggio – siamo abituati, e sugli effetti collaterali che quel sistema comporta.
EFFETTI COLLATERALI
Cinicamente si potrebbe affermare che quell’omicidio è un effetto collaterale a cui vanno incontro le società assicuratrici, ma ci sono anche quelli, numerosissimi, a danno di coloro che in teoria dovrebbero essere assistiti, ma spesso non lo sono.
Un interessante articolo dal titolo “Cosa c’è dietro la «crudele avidità» delle assicurazioni sanitarie Usa”, pubblicato sull’Avvenire del 14 dicembre, conferma che il sistema sanitario statunitense è “dominato dal profitto che spinge ai margini chi ne ha più bisogno”. Un sistema sanitario gestito, di fatto, da assicurazioni e mutue private, che sempre più spesso, arbitrariamente e contro il parere dei medici, intervengono sulle terapie di cui gli assicurati avrebbero bisogno, negando anche i rimborsi per interventi oncologici e chemioterapie.
Nell’articolo, a firma di Elena Molinari, si legge che nell’ultimo anno “le mutue private, che costano centinaia di dollari al mese ad ogni assicurato, hanno respinto come sempre circa un terzo delle domande di assistenza che hanno ricevuto”.
Tuttavia, l’ondata di malcontento seguita all’uccisione del manager assicurativo è espressione di una minoranza di americani, perché – oltre alla potenza di fuoco della lobby delle assicurazioni sanitarie – una forte resistenza al cambiamento di quel sistema “è culturale. La maggior parte degli americani assicurati, occupati e in buona salute crede nel mito che il loro sistema sanitario sia il migliore al mondo e non lo cambierebbe con un apparato pubblico.”
L’aspetto che forse è stato trascurato dalla stampa italiana riguarda il rischio a cui anche noi – non solo nel nostro Paese – andremmo incontro, se si dovesse ulteriormente aggravare il disimpegno pubblico in campo sanitario per lasciare spazio ai privati, costringendo i cittadini a ricorrere a mutue e assicurazioni, nell’illusoria speranza che saranno loro a coprire le spese.
Nessuno ricorda che ci si assicura per tutelarsi da un possibile rischio e che il premio, cioè il costo che si sostiene per assicurarsi, non è altro che il prezzo di quella tutela. Maggiore è il rischio, maggiore il costo.
Le compagnie di assicurazione sono imprese che legittimamente mirano a fare utili, e quando il rischio aumenta necessariamente devono adeguare il premio, cioè il prezzo. È quello che avviene, per fare l’esempio più banale, con la RCA quando si causano incidenti e si scende nella classe merito.
Lo stesso per qualunque copertura, comprese quelle sanitarie. Quanto sarà costretto a pagare un soggetto ad altro rischio assicurativo, come chi ha patologie gravi o che richiedono continue cure o è avanti negli anni? Dovrà pagare sempre di più, se potrà permetterselo, e quando poi arriverà in “diciottesima classe” nessuno vorrà più assicurarlo e sarà costretto a non curarsi più. Meditate, gente, meditate, diceva Renzo Arbore.
Il tema delle assicurazioni sanitarie USA è talmente scottante da essere stato trattato in romanzi e film. Uno per tutti L’uomo della pioggia (The Rainmaker), romanzo di John Grisham portato sullo schermo da Francis Ford Coppola.