La strage di Capaci. Il dovere della memoria, il diritto alla verità
“Ammazzanu u giudici! Ammazzanu Giovanni Falcone”. Il 23 maggio 1992 era sabato e faceva caldo. L’estate siciliana era già arrivata, con le sue alte temperature, il cielo un soffitto infinito di azzurro, la scuola che finiva, i ragazzini fuori per strada a giocare. I siciliani non ne sapevo niente di quei cinque quintali di tritolo piazzati nel tunnel sotto l’autostrada A 29, al chilometro 5 nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine.
Alle 17.58 la mafia, quella mafia che secondo diversi politici dell’epoca non esisteva nemmeno, si palesava con un boato ed un cumulo di detriti, cemento e polvere, auto e corpi balzati in aria, vite distrutte per sempre.
Non che quella mafia non avesse già colpito prima e tante altre volte, lo aveva fatto a colpi di pistola e auto cariche di esplosivo. La mafia ne aveva già ammazzati tanti di uomini e donne, civili e rappresentanti delle istituzioni, carabinieri, poliziotti, magistrati, sindacalisti e politici. E poi bambini, la mafia uccideva anche i bambini, per sbaglio o per scelta.
Facevano orrore tutti quei morti, a contarli spavento, a raccontarli, uno ad uno, disperazione e rabbia.
Come oggi, l’opinione pubblica sapeva indignarsi il tempo di un telegiornale e poi tornare alle proprie vite, ai propri affanni. E poi, per gli italiani quello della mafia ero uno spettro maligno che abitava solo in quella bella e dannata isola del sud Italia. Per i siciliani, anche quelli onesti, era una sgradita, pesante eredità, un marchio pregiudicante stampato sulla pelle, da sentirsi gli occhi puntati addosso appena oltrepassavi lo Stretto e aprivi bocca per parlare, tradito dall’accento.
Il 23 Maggio 1992 quel asfalto rovente saltava in aria con le macchine di passaggio, con Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo, gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.
Il giudice Giovanni Falcone muore nell’ospedale Civico di Palermo poche ore dopo, a causa delle emorragie interne. Anche la moglie e giudice Francesca Morvillo, che era seduta in auto al suo fianco, perde la vita. Uccisi nell’attentato anche gli angeli custodi, gli uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani che precedevano il giudice su un’altra auto, la prima investita in pieno dall’esplosione.
A volerlo era stata la mafia, e chi altro oltre alla mafia ce lo chiediamo ancora oggi. Totò Riina compiva la strage pianificata per uccidere Giovanni Falcone e lo faceva grazie a Salvatore Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro, Lorenzo Tinnirello, Antonino Gioè e Giovanni Brusca che azionava l’esplosione.
Restano ancora molte domande senza risposta in merito ai “mandanti esterni” delle stragi, ad alcuni dei reperti rinvenuti sul luogo della strage di Capaci, così come in merito ad altri soggetti coinvolti e fatti avvenuti in quegli anni, ad esempio riguardo alle ragioni e alle modalità della morte di Antonino Gioè e al coinvolgimento nell’attentato a Falcone dell’artificiere Pietro Rampulla, militante di Ordine Nuovo.
E ancora, cosa contenevano le intercettazioni tra Nicola Mancino (indagato nell’ambito dell’inchiesta Trattativa Stato-mafia) e l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano? E perché sono state addirittura distrutte?
“Ammazzanu u giudici! Ammazzanu Giovanni Falcone”
Avevo 9 anni. La mafia per me e gli altri bambini della mia età non esisteva nemmeno. Esistevano i cartoni animati alla televisione, al tempo in cui solo alcune reti televisive li trasmettevano e solo in una determinata fascia oraria, poi dovevi per forza trovarti un gioco da fare, inventandoteli i giochi, correndo, prendendo polvere, sporcandoti, qualche volta sbucciandoti anche le ginocchia.
“Hanno ammazzato il giudice!”. “Ficiunu na stragi!”. “Ma a chi? A Falcone? Può essere mai?”. Non ci si poteva credere, non poteva essere. Era una cosa troppo grossa. Avevano sventrato un’autostrada fottendosene di chiunque la percorresse, l’avevano fatta saltare letteralmente in aria per colpire il giudice del Maxi processo, il primo processo alla mafia.
Non ricordo chi degli adulti presenti diede la notizia per primo. Ricordo le voci, erano tante le voci scosse, un coro stonato, e ricordo le espressioni di smarrimento stampato sulle facce, lo stato d’animo di ognuno, quello sì, era ben accordato e unanime.
Noi bambini non ne sapevamo di queste cose, di uomini che si uniscono, decidono, progettano e ammazzano questo o quello, che lo fanno con le stragi, che per ucciderne uno ne ammazzano tanti, così che lo sappiano bene tutti quanto sono forti loro.
Non ne sapevamo nulla, almeno fino ad allora, fino a quando abbiamo letto negli occhi dei grandi un dolore nuovo, cupo, disperato.
In quell’istante ho imparato una cosa indimenticabile, una che a scuola non ci insegnavano: che ci sono cose che ci uniscono tutti, riguardano tutti, nessuno escluso, e chi fa finta di non vedere, di non saperne, e oggi di non ricordare, diventa in qualche modo complice e colpevole.
I funerali di Falcone
Al funerale di Giovanni Falcone i siciliani mostravano rabbia e dolore: la rabbia contro uno Stato inadeguato rispetto alla grandezza e al valore dei propri uomini, al contempo distante dalla gente che adesso sembrava non tollerare più il puzzo di quella montagna di merda che è la mafia.
Le telecamere della Rai affacciate da un balcone su Via Roma mostravano una folla che era ormai una voce sola, gridava: “Vergogna! Vergogna! Vergogna!”
I FUNERALI DI GIOVANNI FALCONE E LA RABBIA DELLA CITTADINI CONTRO I POLITICI PRESENTI: https://www.youtube.com/watch?v=tdH4DhOFlfE
L’epilogo della strage di Capaci non fu una Sicilia nuova, ma una nuova mafia
Cosa sarebbe dovuto accadere dopo la Strage di Capaci? A seguito della rivolta popolare contro lo Stato che si era dimostrato assente, bugiardo e traditore, era fondamentale riconquistare la fiducia degli italiani e farlo dimostrando l’allerta massima delle istituzioni, una concreta presa di coscienza dei Governi, la determinazione dei partiti politici a tenere alla larga i collusi mafiosi, una lotta a Cosa nostra sempre più rigorosa fino al declino del fenomeno mafioso.
Alla strage di Capaci, forse, non sarebbero seguite altre stragi. E invece abbiamo avuto la percezione di uno Stato italiano debole e smemorato.
Assistiamo tutt’oggi al tentativo di smantellamento del 41-bis e delle misure antimafia, alla gogna mediatica dei magistrati che portano avanti i processi contro le mafie, alle querele contro quei pochi giornalisti che si occupano di mafie, all’assoluzione di chi tratta segretamente con la criminalità organizzata cedendo ad accordi convenienti per i mafiosi, uomini dello Stato infedeli che oggi rivendica con orgoglio le proprie scelte, e assistiamo all’acclamazione di altri uomini condannati per mafia e richiamati a tirate le fila dei partiti politici.
Poco tempo dopo l’attentato a Giovanni Falcone, la fiducia nello Stato era definitivamente compromessa, quel maledetto 19 luglio del 1992 e l’uccisione del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta in Via D’Amelio ha reso inguaribile la ferita inferta al nostro Paese..
Da allora la mafia cambia, si imborghesisce sempre più, fa politica, entra ancora più spudoratamente nei palazzi istituzionali, fa affari nella finanza, avvelena l’economia, ruba, uccide, distrugge, inquina, è ovunque ma ci entra senza bombe, in silenzio e con il vestito buono, trattando come un grande imprenditore.
Folla inferocita contro i politici ai funerali di Borsellino: https://www.youtube.com/watch?v=rr5umA_cEp8
Quale futuro senza memoria?
Quando parliamo di uomini dello Stato e di civili che hanno dato la propria vita per difenderne valori quali dignità, legalità, giustizia, utilizziamo spesso il termine “sacrificio”.
Un sacrificio che strappa per sempre donne e uomini all’amore dei propri cari, lasciando una ferita impossibile da rimarginare.
Resta allora la consolazione che il sacrificio non sia stato vano, che diventi la colonna portante della nostra identità collettiva e base solida della nostra cultura.
Oggi uomini condannati per collusione con la mafia, scontata la propria pena, tornano a tirare le fila di partiti politici e sono i nomi e i volti della politica siciliana.
Se la legge attuale glielo avesse consentito, sarebbero proprio quei personaggi i candidati alle prossime amministrative comunali delle città più importanti dell’isola, vestirebbero senza pudore i panni del leader, lo farebbero ufficialmente anziché ufficiosamente, diretti verso nuove scalate politiche.
I fatti odierni raccontano di una Sicilia smemorata? Di un popolo ormai immune al sentimento dell’indignazione e che forse comincia ad arrendersi, celebrando uomini e commemorando date solo per convenzione e retorica?
E’ in atto una sorta di normalizzazione del fenomeno mafioso e dell’idea di una convivenza con esso? Non voglio credere sia così. Agli italiani l’appello a non dimenticare, ad essere determinati contro la cultura mafiosa, a tagliare definitivamente i ponti con il passato, con i collusi, a non cedere al ricatto né alle false promesse.
Alfredo Morvillo, fratello di Francesca Morvillo e cognato di Giovanni Falcone, ha affermato: “A trent’anni dalle stragi la Sicilia è in mano a condannati per mafia […] Nessuno nega il diritto a Cuffaro di continuare a vivere e a fare tutto ciò che vuole, per carità, ha scontato la pena e nessuno dice che deve tornare in galera. Il problema non è lui, sono gli altri che lo corteggiano e lo inseguono.”
Anche Maria Falcone, sorella del giudice Falcone, dice: “Chi si candida a ricoprire una carica importante come quella di sindaco e qualsiasi altra carica elettiva deve prendere esplicitamente le distanze da personaggi condannati per collusioni mafiose”.
La mafia è attiva, sempre pronta a sfruttare ogni occasione per radicarsi, prendere ufficialmente posto ai vertici del potere, pronto a spartirsi poltrone, ruoli strategici, per decidere delle nostre vite e delle sorti di questa terra, la nostra terra, e tocca ad ognuno di noi difenderla e far sì che il sacrificio di Giovanni Falcone e degli uomini giusti che celebriamo non sia vano.