di Salvatore Azzuppardi Zappalà
Superate le tre arcate, da cui il nome “I tre ponti”, del cavalcavia ferroviario e imboccato il viale Corsica, si scosse dal torpore che lo aveva preso in aereo e pensò alle innumerevoli volte che aveva percorso quella strada con la Cinquecento, con la moto giapponese dai quattro tubi di scappamento cromati, sovrapposti due per lato, e poi con la sua prima familiare, che gli amici avevano soprannominato Mongibello Express, perché ogni volta che andava a casa per le ferie tornava carico di provviste tipiche siciliane.
Mentre il taxi proseguiva verso il centro, gli venne voglia di ripercorrere altre strade che gli erano più care, così disse al tassista di andare verso il viale Argonne; era una piccola deviazione che non gli avrebbe fatto perdere troppo tempo. Del resto aveva ancora quattro ore prima dell’incontro per cui era andato a Milano.
Mentre percorrevano il largo viale suonò il telefono e sorrise vedendo che era sua moglie. «Ciao Li … si, sono arrivato in orario … Sai dove sono ora? Ti dice niente viale Argonne?»
Ascoltò la moglie, poi riprese «Mi è venuta voglia di fare un giro nel passato, una specie di Grand Tour nei miei trent’anni, poi ti racconto … Ti chiamo prima della riunione, così rivediamo i punti più importanti … La prossima volta vieni anche tu, però, così il Gran Tour lo facciamo insieme. A proposito …» abbassò la voce fin quasi a un bisbiglio e coprì il cellulare con la mano, poi aggiunse «ti amo.»
In prossimità di piazza Tricolore disse al tassista di fare lentamente un giro intorno alla piazza e si soffermò a guardare l’edificio all’angolo fra Corso Concordia e viale Premuda dove aveva lavorato i primi due anni, poi disse all’autista di lasciarlo a piazza Cordusio.
Guardò senza particolare emozione il palazzo in stile umbertino dove aveva lavorato altri due anni, poi si incamminò verso piazza Missori, non senza una sosta alla latteria che gli aveva fatto conoscere il suo amico Roberto, ritrovato per caso a Milano. Come in tutte le latterie milanesi si poteva consumare un veloce pasto, ma lui era rimasto colpito dalla bontà del budino servitogli. Tanto buono che ci ritornava anche con suo padre, ogni volta che per lavoro andava a Milano.
Anche suo padre, forse ancora più goloso di lui, rimase colpito e negli anni seguenti spesso ricordarono con voluttà il gusto di quella crema deliziosa.
Superata piazza Duomo costeggiò il palazzo arcivescovile e si fermò a osservare i locali che all’epoca avevano ospitato una libreria che lui frequentava spesso. Più che una libreria per lui era un luogo di culto, ma non avrebbe saputo spiegare il perché.
Era un insieme di cose a fargliela piacere. I locali utilizzati non erano botteghe che si affacciavano sulla strada, senza soluzione di continuità fra uno spazio e l’altro, ma si trattava di locali del palazzo dell’Arcivescovado che in passato potevano avere ospitato stalle, depositi, rimesse o chissà che.
Alla libreria si accedeva attraverso una normalissima porta con vetri, non c’erano vetrine sulla strada, ma finestre a circa due metri dal suolo e le stanze comunicavano fra loro attraverso comuni passaggi senza porte. Camminando sul vecchio parquet se ne sentiva lo scricchiolio, che accompagnava il visitatore durante il suo pellegrinaggio da uno scaffale all’altro.
Insomma, non era come le altre grandi librerie modernamente arredate e per questo esercitava un fascino che per lui era aumentato dal fatto che trattava libri di geografia, viaggi, etnologia che non si trovavano altrove con la stessa facilità.
La prima volta c’era entrato nei primi mesi che abitava a Milano; cercava libri di escursionismo e qualcuno lo aveva indirizzato a quella libreria. Ci tornava spesso, anche solo per passare il tempo sfogliando libri sui posti più disparati che gli sarebbe piaciuto visitare e un pomeriggio di trent’anni prima, non avendo voglia di tornare subito a casa, dopo essere uscito dall’ufficio vi si era recato per lustrarsi gli occhi, senza immaginare cosa lo aspettava.
Quella mattina non aveva provato particolari emozioni nel rivedere i luoghi dove aveva vissuto e lavorato per alcuni anni da giovane, in più sapeva già che quella libreria era stata chiusa, ma in quel momento trovarsi davanti a quelle porte che ora davano accesso ad altro, ridestò inaspettatamente in lui quelli che Dickens definisce “gli echi delle caverne della memoria”.
Echi lontani che dapprima si percepivano appena e che poi, man mano che si avvicinavano percorrendo le mille tortuose gallerie delle mente, diventavano più forti e chiari.
Immagini e suoni gli si presentarono gradatamente davanti, facendogli rivivere con impressionante realismo le emozioni provate in quella libreria quel pomeriggio in cui la sua vita avrebbe fatto una virata.
Misteriosamente gli apparvero le immagini del volume che stava sfogliando, rivide con la coda dell’occhio, come allora, la figura che gli si era avvicinata.
Riprovò l’emozione, una gioia incredula era stata, provata nello scoprire che si trattava della straordinaria ragazza conosciuta tre settimane prima senza avere avuto il tempo di chiederle un recapito.
Francesco assaporò quei ricordi, sorrise con tenerezza pensando a quella ragazza che ora era sua moglie e sfiorando con una carezza il muro della ex libreria ringraziò l’amore di entrambi per i libri, che li aveva fatti ritrovare.
Molto coinvolgente la descrizione dei luoghi e la tenerezza dei ricordi che mi hanno reso partecipe del tuo tour
Tutto meraviglioso, ricordi emozioni stupore ma soprattutto Amore con la A maiuscola e la delicatezza con cui tutto viene raccontato
Nostalgico e delicato racconto di un passato mai dimenticato.