L’8 gennaio del 1993 moriva a soli 47 anni Beppe Alfano per mano di Cosa Nostra, ucciso da tre proiettili sparati da un revolver calibro 22 mentre si trovava dentro la sua auto, una Renault 9, in sosta sotto la sua abitazione in via Marconi a Barcellona Pozzo di Gotto, nel messinese. Un omicidio ancora oggi senza verità e giustizia, pregno di misteri, fra depistaggi e richieste di archiviazione.
Come spesso accade, le prime voci dopo il delitto davano come possibili moventi quello passionale, che non manca mai, oltre a quello dei debiti di gioco. Una parte della città negò per molto tempo l’esistenza di una mafia ben radicata, preferendo sostenere la tesi di un assassinio che avesse a che fare con avance inappropriate da parte del professore Alfano verso qualche giovane studentessa, un disonore lavato col sangue e che macchiava l’integrità morale di un uomo giusto. Tutto sarebbe stato plausibile per una città che non voleva vedere, non voleva sapere, tutto meno che la cruda realtà di una provincia siciliana così malamente coinvolta nei traffici illeciti dei mafiosi.
Le inchieste di Beppe Alfano
Gli articoli e le inchieste di Beppe Alfano toglievano il velo sul marcio di quella zona detta babba, quella messinese, che sembrava preservata dalla logica violenta delle cosche mafiose. E invece Beppe Alfano raccontava di connivenze fra mafia, politica e massoneria, alleanze sporche che permettevano di fare picciuli con il traffico internazionale di armi che passavano dal porto di Messina, oppure di garantire rifugio al boss Nitto Santapaola durante la sua latitanza.
Processi, archiviazioni, omissioni e depistaggi
Dopo il lungo processo iniziato nel 1995, arriva una prima verità con la sentenza definitiva nell’aprile del 2006: per l’omicidio vengono condannati Giuseppe Gullotti, in quanto mandante, e il camionista Antonino Merlino come esecutore. In seguito, però, le dichiarazioni del pentito Carmelo D’Amico sembrano scagionare Merlino, indicando come esecutore Stefano Genovese con la partecipazione di Basilio Condipodero nel ruolo di basista, aggiungendo particolari importanti su depistaggi e omissioni da parte degli organi istituzionali per occultare la verità sull’omicidio Alfano.
Ma a luglio 2019 ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta ter che vedrebbero coinvolti, secondo il collaboratore di giustizia D’Amico, Genovese e Condipodero.
Dopo una prima richiesta di archiviazione delle indagini sui mandanti occulti da parte della Procura distrettuale antimafia nel 2011, opportunamente rigettata dal Gip del Tribunale di Messina, a luglio del 2019 arriva nuovamente una richiesta di archiviazione dell’inchiesta ter dalla Procura di Messina. L’inchiesta era stata aperta dopo le denunce della figlia del giornalista, Sonia Alfano, proprio per far luce sui lati oscuri intorno alle omissioni e ai depistaggi volutamente perpetrati e che di fatto hanno impedito di conoscere tutta la verità.
Ad ottobre 2019 la Corte d’Appello di Reggio Calabria accoglie l’istanza dei difensori del mandante dell’omicidio di Beppe Alfano per avviare il giudizio di revisione a favore di Giuseppe Gullotti. Dunque, tutto detto e smentito, fatto e disfatto, mentre la verità sembra volutamente scalciata più in là e resa sempre più irraggiungibile.
La mafia che uccideva i giornalisti
A 30 anni dall’omicidio di Beppe Alfano mancano ancora il movente, i nomi certi degli esecutori materiali e del mandante di un delitto che ha colpito al cuore e all’anima il giornalismo attraverso la personalità e la professionalità di Beppe Alfano.
E sì, perché quando si uccide un giornalista come Beppe Alfano, non si colpisce solo l’uomo e il professionista, ma si scrive e sottolinea col sangue del morto ammazzato una regola sacra per la criminalità organizzata di stampo mafioso ed i suoi affiliati celati dietro la maschera del buon imprenditore o politico di turno: se vuoi stare tranquillo ed evitare spiacevoli conseguenze, devi mantenere una certa “distanza di sicurezza” tra te, certi personaggi e certi affari.
La regola è confermata nel tempo, sottolineata nelle pagine di ogni omicidio eccellente, nella lista delle domande sempre superiori alle risposte, rimaste senza finale, senza verità né giustizia.
Beppe Alfano, un semplice insegnante delle scuole medie, diventa un giornalista, di quelli veri, che si fanno domande, che cercano e trovano risposte, non accontentandosi di sapere, ma pretendendo di scriverne, parlarne e farne denuncia pubblica, prima collaborando con alcune radio e televisioni siciliane, poi diventando corrispondente del giornale La Sicilia.
Beppe Alfano avrebbe potuto essere direttore responsabile di molte testate, ma faceva volentieri a meno delle nomine ufficiali con i loro onori al seguito, così come aveva fatto a meno di iscriversi all’albo dei giornalisti e ne restava fuori per protesta, perché un giornalista è giornalista per quello che fa e per come lo fa, e non saranno mai una tassa annuale e un tesserino a raccontare realmente che giornalista sei.
Mimma Barbaro, vedova di Beppe Alfano: “Noi vogliamo sapere chi è il mandante reale, qual è la verità e il perché”
A Palermo il 1° gennaio 2020 l’Unione Nazionale Cronisti Italiani e l’Associazione Nazionale Magistrati hanno ricordato le vittime di mafia al Giardino della Memoria di Ciaculli, una collina confiscata alla mafia a Cosa Nostra. Un albero per ogni vittima di mafia, fra investigatori, giornalisti e magistrati. Presente anche Mimma Barbaro, vedova di Beppe Alfano, che ha affermato ancora una volta: “Noi vogliamo sapere chi è il mandante reale, qual è la verità e il perché”.