Questo racconto, nato anni fa come gioco fra amici la notte di San Silvestro, si presta benissimo ad essere “giocato” anche sotto l’ombrellone, ricordandoci che non sono solo canzonette.

Quand’ero ragazzo sognavo di partire, di girare il mondo, così, dopo la maturità, mi chiesi dopo il liceo che potevo far. Mi risposi che potevo fare tante di quelle cose che decisi di prendermi un anno sabbatico anticipato, ancora prima di iscrivermi all’università.

Non è facile aver diciott’anni, non lo era soprattutto allora, con tutti gli stimoli a prendere jeans, chitarra e sacco a pelo e andarsene, come canta Baglioni in una sua canzone: “la mia casa è la mia pelle, il mio tetto son le stelle, le coperte sono i sogni miei”.

Mi ero informato, c’era un treno che partiva alle sette e quaranta, e una mattina lo presi. E pensavo, dondolato dal vagone,6 che sarà della mia vita, chi lo sa! Mi fermai a Roma un giorno, andai anche a Porta Portese, per comprarmi dei blue-jeans, ma era all’estero che volevo andare, così l’indomani le dissi: arrivederci Roma, e salii sul treno Palermo Francoforte.

L’anno prima era partito per la Germania un ragazzo del quartiere, dalla cui madre mi ero fatto dare il recapito, per avere un appoggio a cui rivolgermi. Fu gentilissimo, mi ospitò nella casa che divideva con due calabresi e un pugliese, ma gelò i miei sogni di avventura, dicendomi: amico mio, il paradiso non è qui, per questa gente siamo quelli del salame, e per cognome qua ci chiamano spaghetti.

Rimasi impressionato, devo confessarlo; al mio nome ci tenevo, era l’unica cosa che nessuno poteva togliermi, così decisi di prevenire ogni delusione, e di fregarli, in un certo senso, e quando l’indomani mi fu offerto di lavorare come muratore, mi presentai dicendo “piacere, Luigi delle Bicocche”. “Franz è il mio nome”, rispose l’altro (che in realtà si chiamava Franco Falsaperla ed era di un paese etneo, come scoprii in seguito).

Il lavoro era durissimo, ma tutta la vita da schiavo che facevo era dura. Se avessi fatto il muratore in Italia, sotto il sole mi sarei spaccato le nocche. In Germania le nocche me le spaccavo sotto la pioggia e in più mi massacravano l’amor proprio, con i loro sguardi pieni di quello che a me sembrava odio per il 4-3 dello stadio Azteca, che sicuramente ancora gli bruciava. Ma strinsi i denti per un po’ di mesi, finché non riuscii ad accumulare qualche centinaio di marchi, per rimettermi in viaggio. Ma non per tornare a casa, tutt’altro.

Un giorno, dopo avere poggiato another brick in the wall, dissi a Peppe, il mio amico, “si potrebbe andare a Stoccolma”. “Dove se mangi stai colma”, aggiunse lui. Ma anche se l’idea gli piacque, lui era andato in Germania per lavorare, non per ingannare il tempo in attesa di decidere cosa avrebbe fatto da grande.

Così salutai lui, salutai il signor padrone e una gelida mattina di febbraio partii per Amburgo, e lì mi imbarcai sul traghetto per la Svezia.

Il viaggio fu molto stancante, il mare d’inverno a quelle latitudini è spesso agitato (“ma come fanno i marinai”, pensavo) e la nave sembrava sempre sul punto di rovesciarsi, ma come Dio volle arrivai a Stoccolma, anche se in condizioni pietose, tanto che gli impiegati della dogana, due donne e due uomini vestiti di bianco, nel vedermi esclamarono all’unisono: “Mama mia!”.

A Stoccolma feci amicizia con un fuoriuscito spagnolo, Pablo, e con Pino, un napoletano che faceva il pizzaiolo e mi procurò un lavoro da lavapiatti alla pizzeria Vesuvio.

Pablo era simpatico ma un po’ monotono, perché parlava solo del suo gallo da battaglia e non faceva che ripetere che “el pueblo unido jamas serà vencido”; però il fumo con lui lo dividevo e il padrone non sembrava mai cattivo.

Gli piaceva divertirsi, ed era affascinato dall’usanza nordica di fare il bagno nelle acque letteralmente gelate dei fiumi o dei laghi.

Un giorno mi disse “vamos a la playa”, anche se si trattava di una distesa di ghiaccio, e io che preferisco gli scogli e alla Playa non ci vado neanche quando si tratta di una vera spiaggia sabbiosa, gli risposi: “no tengo dinero”, e gli dissi che preferivo andare a scaldarmi da Michelle, una ragazza inglese, di madre francese, che avevo conosciuto il giorno prima in pizzeria (ero l’unico che parlava francese, perché i proprietari conoscevano solo il napoletano e lo svedese).

Lui, pronto, mi fece: “vengo anch’io”. “No tu no”, risposi io e gli feci un saluto ironico con la mano. Pino, invece, era uno di quei tipi di napoletani che qualche anno dopo Massimo Troisi e Lello Arena avrebbero portato sullo schermo, e in effetti era una sintesi dei due personaggi di “Ricomincio da tre”.
Le sue frasi ricorrenti erano: “A ro’ sta ‘o sole mio?”, “Quanno chiove me vene appocundria” e “Je so’ pazzo a restare accà”.

Intanto era arrivato aprile, eravamo, o dovevamo essere in piena primavera, da noi in quel periodo le colline sono in fiore; ma che freddo fa invece in Svezia. Altro che la collina dei ciliegi, altro che fiori rosa, fiori di pesco, là continuava a nevicare ed era proprio una maledetta primavera. Quando uscivo dalla pizzeria portavo un eskimo addosso, ma anche se correvo subito da Michelle mi sentivo lo stesso stranger in the night.

Un sabato pomeriggio casualmente mi trovai a passare davanti all’ambasciata italiana, e alla vista del Tricolore fui preso da una tremenda nostalgia. Pioveva un’acqua gelida e non era certo un sabato italiano. Tu chiamale, se vuoi, emozioni, ma sotto la pioggia, pensieri e parole affollavano la mia mente, e una lacrima sul viso mi passò, mentre dicevo a me stesso: “non c’è più niente da fare”-

Poco più in là una zingara offriva le sue vere o millantate capacità divinatorie a chi voleva farsi leggere il futuro, così mi avvicinai e le dissi: prendi questa mano, zingara, dimmi che destino avrò!
Ho visto anche degli zingari felici, ma questa era una laida vecchiaccia, che fece una smorfia e cominciò a sproloquiare, chiedendomi fra l’altro se fossi nato sotto il segno dei pesci.

Nessuno mi può giudicare, pensai fra me, così la mandai a quel paese e mi allontanai. Strada facendo decisi che avrei lasciato la Svezia. Quella sera, dopo avere bevuto un caffè nero bollente, lasciai la pizzeria convinto che avrei detto a Michelle: “Vedi cara, questo piccolo grande amore non può continuare”, ma quando lei, guardandomi con i suoi dolci occhi di ragazza, mi disse che tornava a casa sua, a Londra, e mi propose di accompagnarla, non seppi fare altro che balbettare: “io vorrei … non vorrei … ma se vuoi”. Per poi concludere: “perché no!

Ogni giorno c’è un volo che parte alle 8.50, e qualche giorno dopo lo prendemmo anche noi. Arrivati a Londra io mi sistemai provvisoriamente in un ostello, in attesa di trovare un alloggio migliore, e andai a cercarmi un lavoro.

Pensai che forse avrei avuto più chances in un locale italiano, e al terzo tentativo fui assunto come cameriere al Trani a Gogò, una trattoria tipica milanese gestita da un tale Cerutti Gino, dove si serviva quasi esclusivamente barbera e champagne.

Ci rimasi alcune settimane, finché non ebbi un colpo di fortuna, grazie a Sylvie, cugina parigina di Michelle, che insegnava francese in una scuola estiva per ragazzini. Le chiesi se avevano bisogno di un insegnante di italiano, e fui preso.

Il primo giorno fu scioccante, perché quando cominciai a parlare i ragazzi si alzarono dicendo in coro “we don’t need no education”. Ma poi ci intendemmo e credo che qualcosa l’abbiano imparata.
Sylvie era una ragazza simpatica, oltre che très charmante, e inevitabilmente nacque un’affettuosa amicizia.

La cugina ci rimase male quando, cercando di rendere meno amara la cosa, le dissi “tu sei stata la prima cosa bella che ho incontrato nel mio viaggio, e se stasera sono qui, in ginocchio da te, è per dirti che non son degno di te” e alla sua richiesta di chiarimenti risposi: “Non c’è niente da capire, il cuore è uno zingaro, questo folle sentimento sembrava un centro di gravità
permanente
, eppur mi son scordato di te e ora provo un sentimento nuevo per tua cugina”.

E siccome è facile incontrarsi anche in una grande città, un giorno m’imbattei in un vecchio compagno di scuola che faceva il pianista di piano bar a Soho. Mi propose di cantare con lui, se mi interessava e se ero libero. Accettai immediatamente, visto che lavoravo di giorno, ma la notte no.
In tre settimane guadagnai 300 sterline e furono tre settimane da raccontare.

Con quei soldi decisi di trascorrere una giornata al mare, anzi un week end romantico con Sylvie, a Brighton, rinomata località balneare sulla Manica. Prendemmo un treno turistico a vapore alla stazione Vittoria. Fra tanti treni moderni, la locomotiva sembrava fosse un mostro strano, ma ci portò tranquillamente a destinazione.

L’albergo dove alloggiammo non aveva niente di british, anzi. Si chiamava Hotel California ed era gestito da una certa Mrs. Robinson.

Ricordo benissimo quel giorno: era giugno inoltrato, con tipico clima inglese, cioè scende la pioggia (e la chiamano estate!). Però poco più in là, lungo la spiaggia c’era una rotonda sul mare, con un ristorantino gestito da italiani, dove cenammo con spaghetti, pollo, insalatina e una tazzina di caffè. Complessivamente buono, ma forse per la vicinanza del mare tutto aveva sapore di sale.

Dopo cena, visto che aveva smesso di piovere, andammo a passeggiare sulla spiaggia, mentre sorgeva la luna, ‘a luna rossa, e io le dissi, “guarda che luna!”.
Climaticamente parlando non era stata una bella giornata, ma fu bella lo stesso, così scoprii che sapore ha una giornata uggiosa.

La domenica mattina girando per la città ci fermammo a guardare i negozi di souvenir e decisi di regalarle un foulard di seta indiana, come si usavano allora. Ce n’erano di tanti colori e quando le chiesi quale le piaceva mi rispose “Any colour you like”.

Londra a quei tempi era il mito e la meta per i giovani di tutto il mondo, e brulicava di turisti che parlavano tutte le lingue. Sembrava la torre di Babele e avevano ragione gli inglesi a dire che Piccadilly Circus era l’ombelico del mondo.

Ti sentivi cittadino del mondo, “io non mi sento italiano”, pensavo, ma un pomeriggio, sotto la fontana, provai una fortissima emozione quando un gruppo di ragazzi con la chitarra attaccarono delle note molto familiari, e in pochi minuti tutta la piazza risuonò di centinaia di voci che all’unisono cantavano “Oh Bella ciao, Bella ciao, Bella ciao, ciao, ciao”. Quelle note così coinvolgenti mi fecero ritrattare quanto avevo pensato prima e pensai orgoglioso, sono un italiano, un italiano vero!

Questo episodio mi fece vibrare le cordicelle del cuore e mi fece sentire come un extraterrestre, per il peso della lontananza, che non solo spegne i fuochi piccoli e accende quelli grandi, ma accende anche la nostalgia di casa.

Era un anno che ero partito per quello che potevo considerare una specie di Grand Tour in senso inverso. “Ho un anno di più”, pensai, e forse è tempo di tornare alla base. Pensavo di aspettare la fine di agosto, quando Sylvie sarebbe tornata à Paris, ma una sera inaspettatamente scoprii che era bella senz’anima, quando la vidi spuntare al piano bar in compagnia di uno born in the U.S.A.

Dio mio no! Pensai, ma dovetti prendere atto che per lei il nostro rapporto era stato solo un’avventura. Mi sentivo come se avessi una spada nel cuore, quel cuore matto che mi batteva dentro, e le chiesi perché, ma lei, con un sorriso glaciale mi rispose: “sono una donna, non sono una santa”.

La supplicai: “lascia l’ultimo ballo per me”, ma lei inflessibile: “bisogna saper perdere”. Non volevo arrendermi e le chiesi se ci saremmo rivisti, ma lei rispose: “I’ll sea you on the dark side of the moon”. Dopo questa cocente delusione mi passò la voglia di tornare a casa, rimasi a Londra e per dimenticare desideravo dieci ragazze per me.

Forse non furono dieci, ma riuscirono a farmela dimenticare: Linda, che sapeva ballare, Anna, che non aveva mai visto un uomo piangere, Margherita, una grande passione che è stata la mia disperazione, Giulia, con gli occhiali sul naso, Alice, che guardava i gatti. E poi Agnese, la dolce Agnese, e Carmela, tanto speciale da essere diventata Ipercarmela, e Belinda, che parlava da sola con l‘insalata.

E che dire di Jane, Lady Jane, talmente attraente che non seppi trattenermi dal chiederle subito Let’s Spend the Night Together.
Ma alla fine mi tornò la nostalgia di casa, così un pomeriggio di fine estate presi il volo AZ5041 e lasciai la pallida Albione.
Era il 29 settembre.

Di Salvatore Azzuppardi Zappalà

Salvatore Azzuppardi Zappalà, scrittore, è nato e vive a Catania. Dopo la laurea in Scienze Politiche ha lavorato come bancario e poi consulente finanziario indipendente. Specializzatosi in Diritto Bancario è anche consulente tecnico-legale su contratti di finanziamento e investimento. Ama le buone letture (i suoi pilastri sono Victor Hugo, Hemingway, Steinbeck, Conrad e Garcia Marquez), la buona musica italiana ed è appassionato di storia, in particolare della Seconda Guerra Mondiale. Su quel tragico periodo ha collezionato testimonianze di vita vissuta, che ha raccolto nell’antologia 1943-1945. Per non dimenticare. Nel suo primo romanzo – “Ti ricordi quella strada …​“, Algra Editore – l’Italia degli anni Settanta fa da sfondo alla storia di Lia e Francesco, in questo che non è solo un romanzo storico, di formazione e di sentimenti (non sentimentale, però), ma un tributo a uno dei periodi più controversi della nostra storia repubblicana. Non solo anni di piombo, ma soprattutto anni fertili, gli anni dell’impegno in politica e nel sociale, gli anni in cui si prese coscienza delle problematiche ambientali e dell’importanza della partecipazione.