Davide Cifalà si racconta a Sicilia Buona. La sua storia comincia nel quartiere popolare Librino di Catania ed è legata ai luoghi, alle passioni e alle dannazioni che hanno caratterizzato il suo percorso di vita, rendendolo l’uomo che è oggi, trovando il suo riscatto nello sport e nella scrittura.
Intervista a Davide Cifalà, karateka e scrittore siciliano
D: Come ti racconteresti a chi non ti conosce ancora? Chi è Davide Cifalà?
R: Una volta un giornalista molto bravo, Bruno Russo, che scrive per il quotidiano napoletano Il Roma, mi definì “il karateka burbero e dannato, ma dal cuore buono “. Io penso a me stesso più che altro come un combattente nato, ancora prima che diventassi un artista marziale, etichetta di cui sono profondamente orgoglioso, un ragazzo solitario che ha sempre dovuto combattere nella vita, cercando di farsi bastare le carte che Dio gli mette in mano, anche se il più delle volte si tratta di carte brutte.
Uno che cerca da anni di cambiare la propria vita, ma che al tempo stesso possiede anche quella capacità di prenderla come viene, soffrendo senza mai lamentarsi e senza mai frignare con nessuno, talvolta, fingendo anche di stare bene, quando in realtà non è affatto così.
Da lì nasce il mio alter ego estremo, la mia corazza chiamata VillainDavid.
D: Vivi la tua infanzia e adolescenza in un quartiere difficile di Catania, il quartiere di Librino. Raccontaci la vita di periferia. Cosa significa vivere in un quartiere difficile?
R: Paradossalmente Librino, per quanto sia una stradina bordata di abeti e lampioni dove l’unico svago dei ragazzini per sfuggire alla strada è un piccolo campetto di calcio, è sempre stato per me un luogo amico, l’unico posto dove mi sono sempre sentito amato e protetto.
Perché lì c’era la casa dei miei amati nonni, che purtroppo non ci sono più. Erano i paladini della mia forza e a loro ho dedicato il mio secondo libro “Sei il mio eroe” pubblicato nel 2014, anno in cui venne a mancare mio nonno Natale. L’ eroe di cui parlo è lui, il nonno.
D: Cosa manca di più a Librino? Quali sono le problematiche che maggiormente incidono sulla qualità della vita di bambini e adolescenti in una periferia come quella di Librino?
R: Oggettivamente non è un posto che offre grandi possibilità. È un quartiere pieno di degrado e sporcizia, dove oltre alle “teste montate a rovescio“ ci sono anche tante persone che si alzano alle cinque del mattino per andare a lavorare, per sfamare le famiglie e per dare un buon esempio ai propri figli, tenendoli lontani dalle cattive tentazioni.
È fondamentale, soprattutto da quelle parti, l’educazione che si riceve dalla famiglia. Purtroppo lì ci sono genitori che hanno imparato poco dai loro trascorsi e che di conseguenza educano i loro figli “al contrario” rispetto a come si dovrebbe fare, inculcando loro la mentalità secondo cui essere duri, essere forti, equivale ad essere maleducati, bulli e a violare la legge.
Ma fortunatamente, esistono anche famiglie come quella in cui sono cresciuto io, famiglie che i ragazzi viziati definirebbero “rompiscatole”, i bulli insicuri “genitori stupidi “ quelli che ti insegnano a saper distinguere il bene dal male, che ti raccomandano sempre di stare attento.
Io non ho avuto un’ adolescenza felice e indubbiamente ho avuto tante privazioni, alcune delle quali profondamente ingiuste, ma sono stato fortunato in quanto a educazione ricevuta, sia da parte dei genitori che da parte dei nonni.
E li ringrazio per questo. Posso dirmi un bravo ragazzo grazie a loro.
D: In questi anni, rispetto a quando eri adolescente, trovi che sia cambiato qualcosa nel quartiere di Librino oppure oggi i ragazzi affrontare le stesse difficoltà che hai vissuto tu?
R: Dopo la morte di nonno Natale e nonna Rita non ho più avuto molti contatti con quel quartiere, ma continuo ad essere fiero delle mie origini, perché partendo da lì, nel mio piccolo, qualcosa ho ottenuto.
Non bisogna mai dimenticarsi o rinnegare il posto dal quale si proviene. Io so che ci sono molti ragazzi che proprio come me all’epoca, sono pieni di sogni, che vogliono solo vivere la loro vita in maniera quanto più dignitosa possibile.
Alcuni sognano di andarsene da Librino, altri invece vogliono rimanere e realizzare lì i propri desideri.
D: Prima il calcio e poi il Karate. Lo sport è stato la prima ancora di salvezza per te?
R: Nel mio quartiere non ho mai avuto particolari problemi, avendo ereditato da nonno Natale il carattere tosto e la capacità di farmi rispettare. In realtà i miei disagi partivano da casa mia, con un fratello maggiore dentro casa che faceva disperare i miei genitori, mia madre soprattutto.
Così, covavo dentro dei mostri che mi rendevano irruento con tutti, quasi con difficoltà di comunicazione. Tutto quello che pativo in casa mi imprigionava rendendomi come pazzo. Ero intrattabile e ai tempi della scuola non a caso. Le risse erano all’ordine del giorno.
Ricordo una volta alle scuole medie, c’era un ragazzino che si vantava di avere due fratelli maggiori mafiosi e per questo bullizzava tutti. Nessuno aveva il coraggio di ribellarsi per paura che poi quei fratelli mafiosi di cui quel tizio si vantava, un giorno potessero presentarsi con cattive intenzioni.
Un giorno quel bulletto commise il grave errore di provocare anche me. Io ero grosso all’epoca. A dodici anni ero soprannominato Bud Spencer perché ero alto già come adesso: 1,81 cm e pesavo addirittura 89 Kg. Ero un omone, un armadio a quattro ante.
Una mattina, di fronte alla prima provocazione, reagii subito e ridussi quel ragazzo davvero male, tanto che, quando mi portarono in presidenza mi preoccupai più dell’eventualità di avergli rotto un piede per averlo spinto contro una barricata, che di essere sospeso da scuola.
Meritava una lezione, ma esagerai un pò, in maniera quasi sadica, e mi pentii subito dopo. In fondo, tutto quello che cercavo di fare era essere normale, ma senza riuscirci.
Cercavo di essere diverso da quel mostro di mio fratello che era invidioso del mondo intero e scaricava tutti i propri fallimenti sui nostri genitori, che lo avevano viziato a tal punto da renderlo un miserabile che si trovava male nel mondo, trascurando del tutto di conseguenza me, che per questo sembravo il figlio parcheggiato in un angolo, in attesa che arrivi il suo turno.
Ma io non li ho mai odiati per questo, anzi, li ho sempre protetti, talvolta in maniera esagerata, coprendo le loro mancanze e senza mai chiedere nulla. Per quanti errori abbiano commesso in questo senso, non meritavano questo.
Io ho sempre combattuto un match impossibile da vincere, un match che da vent’ anni mi logora dentro: salvare i miei genitori da quel mostro. Per questa ragione, anche mentre vincevo i trofei nel karate, non ero contento, avevo sempre il broncio, perché la situazione che c’ era a casa, nonostante non avessi colpe, mi faceva sentire un perdente anche quando vincevo, anche quando portavo a casa un trofeo.
La mia vita per queste ragioni non è mai stata normale. A tredici anni sono crollato diventando “il calciatore triste”, l’anoressico apparentemente senza futuro, a diciannove mi sono inventato la mia rinascita decidendo di pilotare tutta quella rabbia che sentivo dentro verso qualcosa di produttivo.
E’ stato così che ho scelto il karate, disciplina che avevo già scelto in realtà quando avevo dodici anni, quando ero ancora “il piccolo Bud Spencer “, ma all’ epoca i miei genitori mi avevano impedito di praticarlo perché preoccupati di quel mio carattere irruento, troppo predisposto alle risse, che con le arti marziali temevano potesse diventare ancora più aggressivo.
D: Hai vissuto una delle malattie che ancora oggi si crede colpisca più le donne, parliamo dell’anoressia. Alla luce della tua esperienza, cos’è l’anoressia? E poi, come ne sei uscito?
R: L’ anoressia è una prigione mentale. Per me fu come un lento suicidio, premeditato. Il mio essere grasso non lo vivevo affatto come un disagio, anzi, mi rendeva più simpatico e a volte mi manca il Davide dodicenne, così carismatico, che faceva tremare i bulli, che lasciava a bocca aperta quelli più grandi che ogni volta dicevano di me “Non può essere che quello lì ha solo dodici anni, come minimo deve averne quindici o sedici…“
Ero un bambino fantastico, con le fattezze di un adulto, con una luce negli occhi che adesso purtroppo non ho più, con tanto entusiasmo dentro.
Non è un’autocelebrazione, ero davvero speciale e suscitavo tanta invidia, tanto odio.
Mi sentivo solo, ma ovviamente quelli che ce l’avevano con me negavano di invidiarmi, dicevano piuttosto che soffrivo semplicemente di manie di persecuzione.
Così un giorno cominciai a perdere quell’ enorme forza d’ animo, quello spirito alla Bud Spencer. Crebbi troppo presto, non seguii l’età naturale e così poi arrivò il conto tutto insieme. Questo coincise con la mia prima esperienza nello sport, nel calcio.
A tredici anni mi presentai all’Oikos Club, la squadra di calcio nella quale andai a giocare, che ero un bambino schiacciasassi, e ne uscii invece completamente deperito, che pesavo 40 chili in meno.
Fui costretto a smettere col calcio perché continuando di quel passo, continuando a perdere peso, sarei morto presto.
Come ne sono uscito? Beh, ho sempre avuto un’immagine chiara di quello che volevo essere, così un giorno, dopo una chiacchierata con papà, che come me è uno che parla poco ma quando lo fa colpisce nel segno, mi scattò quella molla di cui parlo nel libro “Sei il mio eroe “. Alla fine mi dissi da solo: hai dimenticato l’eroe che hai in mente? Tu devi diventare quell’eroe!
E cominciò così la mia rinascita che a diciannove anni mi portò ad entrare in quella palestra di karate e ai trofei che vennero dopo.
D: Parliamo della tua passione per la scrittura. Come è iniziato questo amore con carta e penna? Cosa ha significato per te raccontarti attraverso i tuoi libri?
R: Scrivere per me è sempre stata una via di fuga dalla realtà, nonostante la maggior parte dei miei libri siano autobiografici e quindi raccontino la mia vita vera.
Raccontarmi attraverso le mie storie è un pò come vivere le tappe fondamentali della mia esistenza due volte, un modo per analizzare tutto ciò che ho vissuto, per poter capire meglio me stesso.
Il mio primo romanzo, quello d’esordio, “Libero da ogni limite“, nasce infatti come un diario personale, che cominciai a scrivere quando avevo quattordici anni, in concomitanza con il periodo da calciatore.
Inizialmente erano solo pensieri sparsi. Poi, diversi anni dopo, li trasformai in un romanzo, nel mio primo libro.
D: Quanti libri hai scritto ad oggi?
R: Il Davide Cifala’ scrittore nasce esattamente nel 2011 con LIBERO DA OGNI LIMITE, primo episodio di quella che sarà una serie di libri basata sulla mia vita (il prossimo episodio e’ in programma entro la fine del prossimo anno).
Un libro che non è andato molto bene dal punto di vista commerciale, ma che per qualche ragione, forse per via dei buoni risultati ottenuti nel mio percorso da karateka, mi ha costruito l’ immagine di un supereroe proveniente dalla vita reale ed ha aperto la strada ai libri successivi :
“Sei il mio eroe“ ( 2014 ), che non è un sequel, bensì una raccolta di racconti sempre basata sulla stessa storia, nella quale rivelo i retroscena che in “LIBERO DA OGNI LIMITE “ mi sono stati ingiustamente censurati dalla casa editrice;
“Ritornai a volare“ ( 2020 ), versione graphic novel, un pò romanzata e rivolta a un pubblico di bambini, illustrata con disegni fatti di mio pugno (tranne quello in copertina che è stato realizzato da un pittore).
Lo scorso 20 dicembre 2021 è uscito il mio quarto e finora ultimo libro, il primo della mia carriera non autobiografico, si chiama “Gianluca Branco- Il ring della vita “.
È la biografia del grande pugile di Civitavecchia, Gianluca Branco appunto, uno di quelli che ho sempre considerato un punto di riferimento, perché anche Gianluca è cresciuto in una realtà popolare, anche lui ha sofferto molto, ma oggi vive quella vita tranquilla che è esattamente quella che spero di vivere anch’io un giorno.
Spero che quando avrò cinquant’anni come lui, vivrò una vita come la sua, soddisfatto di me stesso, dell’uomo che sono, felice dei miei fallimenti, perché proprio da quei fallimenti sono nate le vittorie più belle.
D: Nel libro intitolato “Sei il mio eroe” inizi con una dedica alla piccola Annalisa Durante, uccisa in un agguato di camorra nel 2004 all’età di soli 14 anni nel rione Forcella di Napoli. Perché il tuo pensiero è andato proprio a lei?
R: Anche qui c’è un’attinenza con il quartiere popolare. Il quartiere Forcella di Napoli somiglia tantissimo al quartiere Librino di Catania in quanto a degrado.
Questo è ovviamente uno dei motivi per cui questo fatto di cronaca mi ha particolarmente colpito.
In realtà è cominciato tutto per caso, da un articolo su una rivista: c’era la locandina di una trasmissione dedicata ai fatti di cronaca più agghiaccianti che trasmettevano in Rai.
Vidi la foto di questa ragazzina molto carina, con una bandana in testa, foto che ho deciso di inserire sia in “Libero da ogni limite“ che in “Ritornai a volare“.
Quando lessi di come era stata uccisa, mi si strinse il cuore. Qualche anno dopo contattai Giovanni Durante, il papà di questa sfortunata ragazzina. Gli chiesi il permesso di citare Annalisa e lui rimase molto colpito da ciò che scrissi. Con entusiasmo mi rispose che non solo mi dava il permesso di parlare di sua figlia, ma espresse anche il desiderio di farmi presentare “Libero da ogni limite“ presso la sua biblioteca, la biblioteca “Annalisa Durante“ a Napoli, in Via Vicaria Vecchia.
Poi purtroppo, il progetto saltò a causa di alcuni problemi che ci furono al comune di Napoli, con il sindaco De Magistris che aveva altre grane…
Però, sempre tramite Giovanni Durante, conobbi poi una sua amica di nome Alfia Milazzo, Presidente della fondazione La Citta’ Invisibile, con la quale alla fine organizzai la presentazione del mio libro successivo “Sei il mio eroe “, di cui si parlò nella pagina “Cultura“ del quotidiano La Sicilia.
Quella fu la prima volta che vidi il mio nome su un giornale, a parte gli articoli che ogni tanto pubblicavano nella pagina sportiva, ai tempi del karate.
D: Qual è il messaggio che cerchi di dare nei tuoi libri e a chi è rivolto questo messaggio?
R: Che non bisogna rinunciare mai ai propri sogni, anche e soprattutto quando si parte svantaggiati.
Se io avessi dato retta a quelli che mi dicevano che non avevo una preparazione culturale adeguata per poter scrivere libri, avendo interrotto i miei studi quando avevo quattordici anni, e se avessi dato retta a quelli che mi dicevano che a diciannove anni era troppo tardi per cominciare con le arti marziali e che non avrei mai potuto competere in gare di karate vere, non avrei realizzato proprio nulla.
Invece dalle mie stesse ceneri, ogni volta che mi sono sentito col sedere per terra, sono stato capace di inventarmi un nuovo mondo. Non voglio autoproclamarmi come un esempio da seguire, ma attraverso la mia storia vorrei dire a chi vive come me, a chi è come me, che ci si può sempre reinventare nella vita, anche quando si tratta di imparare cose che gli altri sanno fare già da molto tempo.
Non bisogna mai rassegnarsi al proprio destino. Il nostro destino possiamo provare a scriverlo noi.
D: Oggi cosa sogni per il tuo futuro? Cosa vuoi fare da grande?
R: Quello che desidero più di tutto a livello personale è avere una vita normale, una vita mia.
Quella che mi è stata negata fin dalla nascita. Vorrei vedere le persone che amo felici.
A livello professionale il mio sogno è che il mio alter ego “ VillainDavid “ possa diventare un giorno un bel film, una fiction o, perché no, un cartone animato.
Sarebbe il coronamento di una parabola di riscatto sociale, cominciata quando ero un atleta.
Vorrei che VillainDavid diventasse il karateka d’Italia, un po’ come fece il grande Andrea Camilleri con il suo Commissario Montalbano. Vorrei che questo personaggio, che nasce dal mio duro vissuto, possa diventare materia per menti giovani, sentimentali e sconsiderate.