Intervista all’architetto Roberto Tripodi

L’architettura di una città è il riflesso della sua storia, delle sue trasformazioni e delle sfide che affronta nel tempo. Palermo, con il suo ricchissimo patrimonio artistico e urbanistico, rappresenta un laboratorio complesso in cui convivono testimonianze secolari e interventi contemporanei, spesso in un delicato equilibrio tra conservazione e innovazione. Quali criteri guidano oggi il lavoro di un architetto che si confronta con un tessuto storico così stratificato? Quali sfide emergono nel ripensare gli spazi pubblici e nel dialogo tra il passato e il presente? A queste domande risponde l’architetto Roberto Tripodi, professionista con una lunga esperienza nel settore della riqualificazione urbana e del restauro.

Nel corso dell’intervista, Roberto Tripodi affronta tematiche centrali per la città di Palermo, come l’importanza di un approccio filologico nel recupero del patrimonio storico, l’interazione tra architettura contemporanea e identità locale e il ruolo degli spazi pubblici nella vita sociale. Attraverso esempi concreti, dall’intervento sul monastero di Santo Spirito di Agrigento alla trasformazione del waterfront della Cala, l’architetto offre una riflessione approfondita sulle scelte progettuali che possono valorizzare il passato senza rinunciare alla funzionalità e all’innovazione. L’intervista si sofferma anche su alcuni dei progetti più discussi della città, come il quartiere ZEN 2, il nuovo Palazzo di Giustizia e la ristrutturazione di Palazzo Branciforte, evidenziando come l’architettura sia sempre in dialogo con il contesto sociale e politico. Infine, si apre una prospettiva sul futuro dell’urbanistica palermitana, tra la necessità di nuove soluzioni abitative, il rischio dello spopolamento e la sfida di una progettazione che sappia rispondere alle esigenze di una città in continua evoluzione.

L’incontro con l’architetto Tripodi ci offre dunque un’occasione preziosa per riflettere su come l’architettura possa essere uno strumento di rigenerazione e identità, capace di coniugare rispetto per la tradizione e visione innovativa. Un confronto che si rivela indispensabile per comprendere le traiettorie future di Palermo e il ruolo che il progetto architettonico potrà giocare nel suo sviluppo.

Chi è Roberto Tripodi

Roberto Tripodi, nato ad Agrigento l’8 agosto 1948, è architetto, docente e scrittore. Laureatosi in Architettura a Palermo, ha insegnato nelle Università di Palermo e Algeri e collaborato con il C.N.R. Ha poi trasmesso la sua esperienza nelle scuole superiori, insegnando “Tecnologia dell’architettura” e “Costruzioni”. Parallelamente, ha esercitato la professione di architetto, con una particolare attenzione al restauro di complessi monumentali siciliani, tra cui Palazzo Rotolo, la chiesa del Purgatorio ad Aragona e il Monastero Chiaramontano di S. Spirito. Dal 1991 al 2013 è stato preside dell’Istituto Superiore Alessandro Volta di Palermo. Terminato questo incarico, ha continuato l’attività di divulgatore come docente presso l’ULITE e conferenziere per varie istituzioni culturali. Ha pubblicato numerosi saggi e volumi su storia, architettura e società siciliana, tra cui Il manuale del dirigente scolastico (Navarra Editore), Federico II e i Templari (Editoriale Bonanno), Mafia e Sicilianismo (Accademia Templare) e Merica, Merica: viaggio verso il nuovo mondo (Salvatore Sciascia Editore). Nel campo della narrativa, il suo racconto L’uomo di Creta è stato segnalato al Premio Macaione, mentre con Dedalo (Historica Edizioni) ha esplorato tematiche storiche e mitologiche. Attivo nel campo della divulgazione, tiene corsi di letteratura e informazione antimafia presso l’Università Europea del Tempo Libero di Palermo e ha introdotto le tragedie del Teatro Greco di Siracusa per gli “Amici del Teatro Biondo”. Con una carriera dedicata alla cultura e alla formazione, continua a trasmettere la sua passione per la storia e il patrimonio siciliano.

L’Intervista

D. Quali sono i principali criteri che guidano le sue scelte progettuali quando si confronta con il patrimonio architettonico storico di una città come Palermo?

R. La nostra formazione di architetti si basa sui principi sanciti dalla Carta del Restauro di Atene, soprattutto quando interveniamo nei centri storici. Personalmente, ho avuto l’opportunità di restaurare il monastero di Santo Spirito di Agrigento, un complesso chiaramontano che in origine era un monastero cistercense femminile. Questo edificio, noto anche come Steri dei Chiaramonte, affonda le sue radici nel 1294, quando Martisia Prefoglio, madre della famiglia Chiaramonte, donò la struttura alle monache cistercensi. L’approccio seguito nel restauro si è basato su due principi fondamentali: da un lato, l’attualizzazione del monumento, affinché potesse essere reso funzionale e accessibile; dall’altro, il rigoroso rispetto dei criteri architettonici del Trecento. Durante i lavori, abbiamo riportato alla luce una torre di epoca araba e recuperato alcune strutture sepolte. Tuttavia, non abbiamo trascurato l’inserimento di elementi moderni necessari alla conservazione dell’edificio. Ad esempio, per prevenire i danni causati dall’umidità ascendente, abbiamo inserito un isolante tra la muratura e il terreno, interrompendo la risalita dell’acqua. Si è trattato, dunque, di un intervento complesso, che ha richiesto uno studio approfondito delle preesistenze, con l’obiettivo di consolidarle e garantire la fruibilità del monumento senza comprometterne il valore storico e architettonico.

D. Nel suo lavoro, quanto è importante l’interazione tra architettura contemporanea e storia locale? Può darci qualche esempio significativo?

R. In realtà, dobbiamo fare riferimento ai principi dell’architettura contemporanea, che suggeriscono di non imitare artificialmente il passato, ma di avere il coraggio di realizzare nuove costruzioni seguendo criteri moderni, anche nei centri storici. Si tratta di un tema molto dibattuto. Ad esempio, nel cuore di Parigi, Renzo Piano ha progettato il Centre Pompidou, noto anche come Beaubourg, un edificio caratterizzato da strutture in acciaio e ampie superfici trasparenti. Il suo scopo è proprio quello di distinguere il nuovo dal preesistente, senza creare falsificazioni storiche. Questo approccio è condiviso da molti grandi architetti, che ritengono fondamentale puntare su un’architettura di qualità, anche nei contesti storici. Un esempio negativo, invece, è rappresentato da un condominio realizzato a Mondello, nella zona di Valdesi, in mezzo ai villini in stile Liberty. A mio avviso, si tratta di un intervento poco riuscito, che stona completamente con il contesto e rappresenta edilizia di basso livello. In questi casi, l’errore non sta nell’introduzione di un elemento moderno, ma nella mancanza di attenzione alla qualità e all’armonia con l’ambiente circostante. Un altro esempio positivo è Vienna: nella sua piazza principale, di fronte alla cattedrale, troviamo edifici moderni, ma di altissimo livello architettonico. Questo dimostra che è possibile e doveroso intervenire nei contesti storici con tecnologie e materiali contemporanei, purché si tratti di soluzioni progettuali di elevata qualità.
Pensiamo anche al ponte di Calatrava a Venezia: non è una copia del ponte di Rialto, ma un’opera che esprime chiaramente la modernità del suo tempo.

D. Nel caso del restyling della Cala e del Foro Italico, quali sono stati i principali obiettivi e sfide nel progettare spazi pubblici che fossero inclusivi e in armonia con il contesto storico?

R. Uno dei temi centrali è stato lo sviluppo del waterfront, ossia il rapporto tra la città e il mare. Il progetto Delta mirava a introdurre un intervento innovativo, pensato per catturare l’attenzione sia di chi entrava nell’area urbana sia di chi arrivava dal mare. L’obiettivo principale era quello di garantire una soluzione funzionale, che fosse fruibile sia dai pedoni sia da chi attracca con le imbarcazioni da diporto.
Personalmente, condivido questa scelta progettuale, che considero ben riuscita e armoniosa con il contesto. Essendo un appassionato di vela e andando in barca almeno due volte a settimana, ho avuto modo di apprezzarne la resa visiva dal mare. Devo dire che l’effetto complessivo è positivo: gli edifici, con un’altezza contenuta, permettono di mantenere la vista sulle cupole della città, mentre gli spazi aperti, molto frequentati, contribuiscono a valorizzare l’area.
Si tratta di un intervento in linea con gli standard delle città europee. Palermo, dal punto di vista architettonico, ha conosciuto poche innovazioni recenti, e questa realizzazione ha risposto a due esigenze fondamentali: da un lato, ha creato un luogo di incontro e fruizione per cittadini e visitatori, che frequentano sia l’area interna sia il fronte portuale; dall’altro, ha introdotto un’innovazione funzionale, migliorando la viabilità pedonale nella zona di Sant’Erasmo e facilitando l’accesso delle imbarcazioni da diporto, in particolare nel settore occidentale della Cala. A mio avviso, si tratta di un intervento positivo, che ha dato un contributo concreto alla riqualificazione urbana di Palermo.

D. Il quartiere ZEN 2 è spesso citato come un esempio di urbanistica controversa. Come valuta il progetto oggi e quali insegnamenti può offrire per interventi futuri?

R: Il progetto è di un grande architetto, che fu anche mio maestro. Io sono stato assistente di Vittorio Gregotti all’Università di Palermo, presso la Facoltà di Architettura, nel 1973 e nel 1974. Gregotti volle riprendere un modulo storico, quello dell’insula greca e romana, e riproporlo allo Zen, nella zona di espansione nord. Pensava che in questo modo si potessero ricreare i rapporti di vicinanza e relazione che coloro ai quali venivano assegnate le case popolari avevano in precedenza. Secondo me, però, è stato un fallimento totale. Le persone che abitavano nel centro storico di Palermo, nei quattro mandamenti, vennero deportate in quei luoghi. Erano persone che avevano anche una bottega o un esercizio commerciale. Ricordo bene quei tempi: la gente aveva l’abitudine di spazzare la strada davanti alla propria abitazione. Deportarli in quartieri come lo Zen, senza più vicini di casa, senza più la bottega, ha portato alla disgregazione sociale. Il problema, a mio avviso, non è tanto urbanistico o architettonico, ma politico. Il fallimento dello Zen è dovuto alla politica portata avanti da Lima e Ciancimino, che scelsero di creare ghetti-dormitorio alla periferia della città per valorizzare gli spazi intermedi e favorire la speculazione edilizia, determinando quello che poi è stato definito il “sacco di Palermo”. L’idea di creare quartieri dormitorio per deportare gli abitanti del centro storico, invece di investire su quest’ultimo e restaurarlo – come è stato fatto a Firenze, Venezia e Milano – è stato un errore urbanistico gravissimo. Questo è stato il risultato di una pessima prassi urbanistica, adottata da Lima e Ciancimino in quel periodo. Mi preme ricordare che il piano regolatore voluto da Lima e Ciancimino fu ostacolato da uno dei due progettisti, Caracciolo, che si dimise in contrasto con le imposizioni politiche. Il professore Caronia, invece, che era anche il mio professore, rimase e firmò il piano regolatore. In una sola notte imposero che le aree di via Libertà passassero da una densità di 6 metri cubi per metro quadro a 12 metri cubi per metro quadro, con un’evidente forzatura speculativa. L’architettura non è mai un problema isolato: è connessa al committente ed è in costante interazione con la politica. E la politica nostra, in quegli anni, è stata questa.

5- D. La trasformazione di Palazzo Branciforte è un esempio di dialogo tra passato e presente. Qual è stato l’aspetto più stimolante nel lavorare su un edificio con una storia così complessa?

R. Intanto, secondo me, Palazzo Branciforte appartiene a una Fondazione prestigiosa che dispone di capitali cospicui, il che le ha permesso di assegnare l’incarico a un architetto di altissimo livello, Gae Aulenti. Aulenti aveva già maturato esperienze simili, come il restauro del Museo d’Orsay a Parigi, dove aveva trasformato una stazione ferroviaria dismessa in uno spazio museale straordinario. Anche a Palermo, intervenendo su Palazzo Branciforte, Aulenti ha applicato il suo metodo, caratterizzato da una certa forza espressiva e da soluzioni architettoniche vistose. Tuttavia, oggi Palazzo Branciforte è un luogo completamente riqualificato, un punto di riferimento per la città: qui si può essere accolti, visitare collezioni, pranzare, partecipare a convegni. È diventato un cuore pulsante per Palermo. Naturalmente, una figura come Gae Aulenti non poteva limitarsi a un restauro conservativo: ha introdotto il suo metodo, la sua visione architettonica, il suo stile innovativo. Oggi Palazzo Branciforte rappresenta un elemento di qualità a Palermo proprio perché Aulenti ha saputo coniugare la contemporaneità con il rispetto dell’elemento storico.

D. Guardando al progetto per il “Nuovo Palazzo di Giustizia,” cosa rappresenta per lei il concetto di “cittadella giudiziaria” in un quartiere storico?

R. La cittadella giudiziaria sorge in un quartiere storico e si collega in continuità con le trasformazioni urbane di Palermo. L’area in cui è stato realizzato il progetto era caratterizzata da un forte degrado, un tessuto urbano fatiscente che necessitava di un intervento radicale. Rispetto ad altre città, Palermo è una delle ultime in cui si è verificato un cambiamento così significativo in termini di riqualificazione urbana. Pur essendo molto diverso dal contesto preesistente, con il suo fitto reticolo di vie e la sua memoria storica, il nuovo intervento rappresenta un’operazione di grande rilievo. Ricordo quando le Corbusier propose a Parigi un suo intervento urbanistico pesantissimo e innovativo, distruttivo degli elementi costruttivi precedenti. Il progetto, firmato da Iano Monaco, che vinse il concorso, si distingue per due aspetti fondamentali. Il primo riguarda la qualità dei materiali impiegati, con rivestimenti solidi e una struttura concepita per durare nel tempo, senza l’effimera provvisorietà che spesso caratterizza certi interventi contemporanei. Il secondo aspetto riguarda la funzionalità del complesso: avendolo frequentato per motivi professionali, posso affermare che la disposizione degli spazi è stata studiata con attenzione, rendendo aule, scale, ascensori e percorsi interni perfettamente organizzati e funzionali. Naturalmente, l’inserimento di un edificio così impattante nel cuore del centro storico ha suscitato dibattiti. È stato un intervento coraggioso e non privo di contrasti, ma a un architetto con una forte personalità non si può chiedere di rinunciare completamente alla propria impronta. Ogni opera porta con sé il segno distintivo di chi l’ha progettata, e in questo caso la scelta di una scala monumentale e di gallerie alte conferisce all’edificio la giusta solennità, in linea con la sua destinazione istituzionale. Si tratta di un complesso pubblico, non di un’abitazione privata e la sua architettura riflette pienamente la sua funzione.

D. Quale ruolo giocano le opere d’arte e gli arredi artigianali, come quelli realizzati per il Foro Italico, nella definizione dell’identità di uno spazio pubblico?

R. Il rapporto tra l’intervento architettonico e il cittadino è un tema complesso. L’arredo urbano del Foro Italico, per esempio, non è stato pienamente compreso dalla cittadinanza palermitana. Purtroppo, il livello di civiltà diffuso non sembra sufficiente a garantire il rispetto e la conservazione di certi interventi pubblici. L’approccio prevalente è di fruizione immediata, ma spesso manca una percezione del valore artistico e progettuale degli spazi. Passeggiando per il Foro Italico, si può notare come l’intervento abbia restituito alla città un rapporto più diretto con il mare. Se ci si riferisce alla parte verso Sant’Erasmo e il centro di Padre Messina, è evidente il tentativo di recuperare un’area un tempo caotica e poco controllata. Come accade in molte grandi città affacciate sul mare, uno dei problemi principali è proprio l’accessibilità visiva al litorale, spesso ostruita da edificazioni e strutture incongrue. In questo senso, la creazione di una passeggiata a pochi metri dall’acqua e l’inserimento di un giardino al posto delle giostre e del disordine preesistente hanno rappresentato un miglioramento tangibile. La popolazione ha mostrato di apprezzare la nuova possibilità di passeggiare, sedersi, pescare e vivere l’area in maniera più rilassata. Tuttavia, non tutte le scelte materiali si sono rivelate appropriate. L’impiego di manufatti in acciaio e lunghe strutture in ferro, in un’area esposta alla salsedine, non è stata la soluzione ideale. Palermo possiede pietre locali di eccezionale qualità, come quella del Monte Gallo o la pietra di Billiemi, entrambe estremamente dure e resistenti. Sarebbe stato preferibile impiegare materiali del territorio, non solo per ragioni di durata, ma anche per garantire una maggiore coerenza estetica con il contesto urbano e paesaggistico. L’intervento, nel suo insieme, ha comunque rappresentato un passo avanti nel recupero del rapporto tra la città, il mare e un’architettura innovativa.

D. L’intervento sulla Rinascente di via Roma ha portato alla creazione di un’architettura moderna che incorpora elementi del passato. Qual è stata la visione alla base di questa scelta?

R. Il tema centrale di questo intervento è il rapporto tra architettura moderna e contesto storico. A mio avviso, si è trattato di un’operazione eccessivamente radicale. L’intervento sulla Rinascente di via Roma, così come quello sulla Loggia di San Bartolomeo vicino a Porta Felice, non ha saputo mantenere un legame armonico con l’ambiente circostante.

Osservando via Roma, si nota immediatamente un ritmo consolidato di finestre e interpiani che caratterizza l’architettura della zona. Alcuni di questi elementi avrebbero potuto essere ripresi per creare una maggiore continuità visiva e una più forte coerenza con il contesto urbano. Invece, è stata fatta una scelta precisa: realizzare un’architettura che si opponesse volutamente al linguaggio del quartiere. L’uso del vetro, che riflette gli edifici circostanti, non stabilisce un vero e proprio dialogo con il tessuto urbano, ma piuttosto crea una sorta di separazione concettuale. Il risultato è un edificio che avrebbe potuto essere costruito in qualsiasi altra città, da Milano a Berlino, senza perdere nulla della sua identità. Questo dimostra che l’architettura scelta non è stata pensata in funzione del luogo, ma come un oggetto autonomo, slegato dal contesto. Personalmente, non condivido questa impostazione, anche se è innegabile che l’intervento lasci un’impressione forte. L’intento di creare un contrasto evidente è chiaro, ma resta il dubbio se questa sia stata la scelta più adatta per una via così storicamente connotata come via Roma.

D. Qual è la sua opinione sul razionalismo italiano, emblematizzato dal Grattacielo Ina Assitalia? Quali valori di questo movimento sono ancora rilevanti oggi?

R. Il razionalismo italiano, a differenza di quanto accadde in Germania con il nazismo, trovò spazio anche durante il regime fascista, che iniziò a produrre elementi architettonici ispirati a questa corrente.
Di fronte a un passato che ribadiva schemi stilistici come il neoclassico e il neogotico, si avvertiva la necessità di una svolta, e questa avvenne con l’affermazione del razionalismo. L’influenza del Bauhaus e di architetti come Gropius si fece sentire anche in Italia, dove figure come Terragni, insieme ad altri esponenti, imposero una visione funzionalista dell’architettura. L’aspetto più interessante di questo movimento, a mio avviso, non è soltanto la progettazione di edifici iconici come il grattacielo INA-Assitalia, ma anche la concezione di un contesto urbano coerente, studiato in un’ottica di funzionalità e innovazione. Non si trattava più di costruire edifici decorativi o monumentali nel senso tradizionale, ma di integrare nuove soluzioni architettoniche con materiali moderni e criteri razionali. Il grattacielo INA-Assitalia sorge su terreni che un tempo appartenevano alla famiglia inglese Whitaker, nota per aver introdotto a Palermo i primi campi da calcio e da tennis.
Questo dettaglio è significativo, perché indica come l’area offrisse già allora lo spazio e le condizioni per un’innovazione urbanistica di tale portata. Oggi il grattacielo, pur mantenendo una sua attualità nel contesto architettonico, si trova in uno stato di degrado, così come molte altre parti della città. Gli spazi circostanti, un tempo pensati con attenzione, risultano spesso abbandonati o sottoutilizzati. Tuttavia, nonostante il tempo e le difficoltà, il valore dell’opera rimane evidente: è un edificio che conserva la sua funzionalità e il suo pregio, non solo per la qualità architettonica, ma anche per il modo in cui è stato concepito come parte di un più ampio disegno urbanistico.

D: Guardando al futuro, quale direzione dovrebbe prendere l’architettura contemporanea a Palermo per rispondere meglio alle esigenze sociali e urbanistiche della città?

R. Osservando l’evoluzione delle grandi metropoli occidentali, possiamo notare che a Palermo si verificano oggi fenomeni simili a quelli che, dieci anni fa, hanno caratterizzato gli Stati Uniti e le città più avanzate dell’Occidente industrializzato. Questo significa che anche qui ci si sta orientando verso un’edificazione in verticale, con l’adozione di nuove tecniche, tecnologie e materiali, privilegiando la funzionalità a scapito di un’attenzione più approfondita al contesto urbanistico. Un tempo la piazza era il fulcro della vita sociale, un luogo di riconoscimento collettivo che affondava le sue radici nell’antichità, dagli Stoa greci fino all’Agorà. Negli ultimi cinquant’anni, tuttavia, a Palermo le piazze di nuova realizzazione si contano sulle dita di una mano: si può citare Piazza Giovanni Paolo II, ma la tendenza generale sembra essere quella dell’abbandono di questo elemento urbanistico a favore di una crescita in altezza, come è avvenuto a Manhattan o a Dubai. Palermo, però, presenta una problematica peculiare che la distingue dalle altre grandi città: il progressivo spopolamento. Ogni mese circa 549 residenti lasciano la città, e l’intera Sicilia sta vivendo una contrazione demografica preoccupante. Un tempo la popolazione dell’isola superava i cinque milioni di abitanti, mentre oggi fatica a raggiungere quella soglia. Questo dato pone un serio interrogativo sull’effettiva necessità di edificare strutture elevate e di creare un centro direzionale, come quello auspicato dalla Regione Siciliana. Se Milano e altre città hanno giustificato la loro espansione in altezza con una crescita economica e demografica, a Palermo questa prospettiva sembra entrare in conflitto con la realtà del territorio. Il futuro dell’architettura e dell’urbanistica della città rimane quindi incerto. Personalmente, non mi sento di scommettere né su uno sviluppo architettonico significativo né su un declino totale della città. La situazione è complessa e dipenderà da numerosi fattori, tra cui le politiche economiche, demografiche e urbanistiche che verranno adottate nei prossimi anni. Ciò che è certo è che, al momento, mancano sia committenti illuminati sia capitali sufficienti per poter realizzare un’architettura di livello pari a quella delle grandi città degli Stati Uniti o del Nord Italia. Questo limite rischia di frenare ogni possibile trasformazione significativa, lasciando Palermo in una situazione di stallo, sospesa tra il desiderio di innovazione e la difficoltà di attuarla concretamente.