di Paolo Barresi (Università Kore di Enna) e Michele Giacalone (Associazione Amici Museo San Rocco – ODV)

Colonne arabe a Trapani

La città di Trapani non possiede resti archeologici visibili, né di età antica, né arabo-normanna: le testimonianze materiali più antiche risalgono al pieno medioevo. Restano però tre fusti di colonna monolitici in marmo, risalenti ad età romana imperiale o bizantina, le cui iscrizioni in arabo ne documentano l’uso tra il X e l’XI secolo. Erano alti poco meno di tre metri, e pur non essendo possibile attribuirli con certezza a edifici precisi della Trapani araba, è possibile comunque trarne diverse interessanti conclusioni.

Le iscrizioni arabe in caratteri cufici furono pubblicate nell’800 dall’arabista Michele Amari.

La colonna che sembra essere più antica, tra IX e X secolo, è oggi conservata al Museo Pepoli: il fusto monolitico in marmo di Ippona è spezzato a circa un terzo dell’altezza, oggi di m 2,15. Sul fusto, entro un cartiglio quadrato con bordo a semplice listello, si trova l’iscrizione in caratteri cufici di tipo piuttosto antico, senza fioriture, che consentono di datare la colonna Pepoli tra il X e l’XI secolo:

(Amari 1875, 83, n. XXIII).

Wa mâ tawfyqi ’la bi-Llâh.

E non (spero) favore se non da Dio (cfr. Corano XI, 88).

Il testo, derivato dal Corano, rimanda a un utilizzo in origine sacro per la colonna.

Le colonne nella sala di lettura della Biblioteca Fardelliana sono meglio conservate, anche se avrebbero oggi bisogno di un restauro. Hanno iscrizioni in caratteri cufici, in cartigli rettangolari, bordate da tralci vegetali con girali stilizzate, che agli angoli formano palmette con motivo centrale a mandorla: questo motivo decorativo si ritrova in un’iscrizione funeraria su lastra marmorea al Museo Pepoli di Trapani, datata al 1081-1082, consentendo di datare le colonne alla fine dell’XI secolo, alle soglie dell’età normanna.

Ecco il testo delle iscrizioni (traduzione di Michele Amari):

1 – a sinistra entrando (Amari 1875, 82, n. XXI).

Bismi Âllâhi âl Rahmâni âl Rahymi. Thiqâti bi-Llâh.

Nel nome di Dio clemente e misericordioso. Mi affido in Dio.

2 – a destra entrando (Amari 1875, 82, n. XXII).

Bismi Âllâhi âl Rahmâni âl Rahymi. Hasbi Âllâh.

Nel nome di Dio clemente e misericordioso. Faccio assegnamento in Dio.

Troviamo qui la basmala, benedizione che apre ogni testo solenne nel mondo arabo, ma anche dal resto delle iscrizioni sembra di poter dedurre un utilizzo originario in ambito sacro.

I fusti sono coronati anche da un fregio anulare a rilievo su collarino, con arabesco costituito da tralci vegetali intrecciati. I due capitelli corinzieggianti in marmo bianco, attualmente sovrapposti ai fusti, di maniera gaginiana e databili al XVI secolo, furono aggiunti forse al momento della messa in opera nella Biblioteca, come le due basi attiche in marmo bianco. Per la consulenza nella trascrizione delle epigrafi ringraziamo il prof. Antonino Pellitteri dell’Università di Palermo e il dott. Aldo Nicosia dell’Università di Bari.

Diversi fusti di colonna a Palermo e in Tunisia mostrano tratti simili, che riportano pure all’XI secolo: si tratta sempre di colonne romane o bizantine in marmo, alte intorno a 2-3 metri, rilavorate e reimpiegate in età araba. È stato possibile riscontrare l’originale collocazione di tale tipo di colonne in un unico caso, in Tunisia, nella moschea di Sousse, ricostruita nel X secolo: si è potuto così constatare che esse erano usate come decorazione del mihrab, ossia la nicchia al centro del lato della moschea rivolto verso la Mecca. Negli altri casi, e non solo in Sicilia, le colonne erano state riutilizzate in contesti diversi.

Occorre ora chiedersi in quali edifici dovevano essere originariamente inserite le colonne islamiche trapanesi.

Secondo Rosario Gregorio, che scrive alla fine del ‘700, il fusto del museo Pepoli era collocato nel palazzo della famiglia Emanuele, che appare già nel XIII secolo come gruppo rivale dell’altra famiglia nobile di Trapani, gli Abbate (Sciascia 1996, p. 132). La colonna, usata come paracarro, fu recuperata dal nobile Giuseppe Maria Di Ferro (erede degli Emanuele e noto collezionista di epigrafi e oggetti islamici) agli inizi del XIX secolo, e confluì poi nelle collezioni del Museo Pepoli. I bombardamenti del 1943 hanno purtroppo devastato l’area del palazzo Emanuele, presso l’attuale Corso Italia, ma da alcune fonti locali sappiamo che si trovava in un isolato urbano che doveva costituire un importante palazzo in età medievale, dove nel XVI secolo fu costruita la chiesa di S. Maria di Gesù. Si tratta di un’area all’interno del più antico nucleo urbano della città, il quartiere “Casalicchio” o “S. Pietro”, circondato da mura sin da età antica. Relitti di questa prima cinta muraria sono ancora osservabili nella cosiddetta “porta Oscura” che si apre su Piazza Cuba.

Le altre due colonne arabe, in marmo bianco, furono trovate nel 1574, edificando le fondamenta della chiesa e del convento di San Rocco. Rosario Gregorio pubblicò per primo i testi delle iscrizioni nel 1790, quando i fusti si trovavano ancora nel convento di S. Rocco (in coenobio Fratrum tertii ordinis S. Francisci); come nota Michele Amari (1875, 82) il Gregorio poté vedere solo i disegni – poco fedeli – delle due iscrizioni, in quanto parla di una sola colonna, cui attribuisce ambedue i cartigli. Ancora nel 1856 tali colonne risultavano nel convento di San Rocco.

Non è noto chi abbia provveduto a spostare tali fusti, dotandoli di basi nuove e capitelli di XVI secolo, nella sala di lettura della Biblioteca Fardelliana, creata nel 1830 al primo piano dell’edificio già appartenente alla Confraternita dei Bianchi, dove si trovano tuttora. È possibile però ricostruire alcune fasi della vicenda.

Secondo lo storico locale Benigno di S. Caterina, scavando le fondazioni della chiesa di San Rocco nel 1574, erano state trovate in tutto cinque “colonnette” con iscrizioni cufiche, allora ritenute puniche. Tre furono donate al noto antiquario ericino Antonio Cordici nel XVII secolo, e confluirono nella raccolta del Conte Ernandez a Monte San Giuliano (Erice); altre due, continua il Benigno, “restarono in Trapani nel medesimo convento di S. Rocco, e si veggono tuttora affisse in un muro, che fa capo alla scala de’ Corridori del medesimo Convento”. Nel 1868 erano già nella sala centrale della Biblioteca, dove Michele Amari poté studiarle. Lo spostamento sarà avvenuto dunque dopo l’Unità d’Italia, probabilmente dopo la trasformazione di chiesa e convento di San Rocco in edificio pubblico in seguito alle “leggi eversive” del 1866: durante tali lavori le colonne potrebbero essere state trasferite nella Biblioteca comunale. Potrebbe essere stata un’iniziativa di Giuseppe Polizzi, cultore di archeologia e sempre preoccupato di conservare testimonianze materiali di storia trapanese, che allora ricopriva la carica di vicebibliotecario alla Fardelliana: avrebbe così unito alla colonna di palazzo Emanuele, da lui ritrovata e collocata in Biblioteca, anche le due colonne di San Rocco.

Le altre tre colonnette con iscrizione in caratteri cufici, che secondo il Benigno furono trovate sotto San Rocco e poi donate ad Antonio Cordici, confluite nel “museo Ernandez” a Erice, potrebbero poi identificarsi con quelle, pure pubblicate da Michele Amari, appartenenti proprio alla raccolta Hernandez a Erice, una delle quali è datata dall’iscrizione al 465 dell’Egira, ovvero 1072-73 d.C. La raccolta Hernandez fu poi acquisita dal Museo Pepoli negli anni ’20, ed oggi le tre colonnine sono esposte nel suo settore archeologico.

Se questa ricostruzione è corretta, si rafforzerebbe l’idea di una notevole costruzione di età tardo islamica nell’area immediatamente esterna alle mura della città del primo medioevo, dotata sia di

una moschea, cui fanno pensare le due colonne maggiori, sia di un cimitero, attestato dalle colonnine.

Non vi è difficoltà a immaginare nuove costruzioni islamiche alle soglie o nel pieno della conquista normanna di Trapani, avvenuta nel 1076, perché in città, accanto alla comunità cristiana (ancora in gran parte di osservanza greco-orientale), vi doveva essere una fiorente comunità ebraica, e una comunità islamica che, ancora alla fine del XII secolo, secondo Ibn Jubayr, era non solo tollerata, ma anche numericamente importante. Per tutto il XIII secolo, nell’area più interna della città (in seguito interessata dall’insediamento ebraico, almeno fino al 1492) non vennero fondate chiese: ciò fa pensare che l’elemento islamico fosse qui confinato, almeno fino al momento dell’espulsione da parte di Federico II.

È vero che il punto in cui sono stati trovati i fusti della Fardelliana si trovava fuori dal quartiere San Pietro, zona urbana in età araba e normanna; la cinta muraria fu ampliata fino a racchiudere l’intera penisola falcata solo dopo il 1293, ad opera di re Giacomo II di Aragona. Il centro cittadino racchiuso nel più antico nucleo di mura presenta effettivamente caratteri urbanistici islamici, con strade tortuose e case raggruppate su cortili interni, mentre l’addizione aragonese, poi chiamata “Palazzo” o “S. Lorenzo”, ad ovest del nucleo originario, ha strade ampie e ortogonali.

Tuttavia, tale zona della città non era né disabitata né di secondaria importanza, prima della nuova fondazione aragonese. Secondo il Pugnatore, storico trapanese del XVI secolo, alcuni consoli, ovvero amministratori di fondaci delle città interessate al commercio marittimo, vi si erano insediati già da tempo: così il consolato di Genova, presso l’odierna chiesa di S. Lorenzo, al quale fu assegnata da Federico II la casa già appartenente a un nobile musulmano, il gaito Abu-l-Qasim; ma vi erano anche il consolato dei fiorentini, presso la porta Serisso, il consolato di Alessandria d’Egitto, nell’estrema punta della penisola, e i primi frati francescani che si erano stabiliti nel 1244 presso il consolato degli Alessandrini, oltre ad un ospizio di benedettini. Tali insediamenti furono possibili grazie al fatto che la parte ovest della penisola, fuori dalle mura antiche, che doveva presentarsi come una serie di isolette affacciate sul porto, si andava interrando, soprattutto per i depositi di alghe lasciati dal mare, e una strada munita di argini la collegava al centro antico. Tale processo urbanistico dovette avere un primo importante stimolo in età federiciana, quando si andavano moltiplicando i legami commerciali e politici tra la Sicilia e Tunisi, che naturalmente sfociavano verso il potenziamento del porto di Trapani, in quanto meglio disposto per le comunicazioni con il nord Africa.

La nostra ipotesi è dunque che le colonne della Fardelliana fossero originariamente impiegate nel mihrab di una moschea, forse inserita in un fondaco presso il quartiere portuale, subito ad ovest fuori le mura della città di età islamica, probabilmente sorto proprio tra X e XI secolo per curare i rapporti commerciali con la vicina costa dell’Ifriqiya.

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