Recensione del libro CI HANNO NASCOSTO DANILO DOLCI di Giuseppe Maurizio Piscopo, Navarra Editore

di FABIO FULFARO

La figura di Danilo Dolci (1924-1997) sociologo, intellettuale, poeta, attivista, umanista, educatore, è stata oggetto per molto tempo di svariate analisi culturali più o meno approfondite. Ma negli ultimi tempi, come sottolineato dalla splendida prefazione di Salvatore Ferlita, sembra essere sceso un velo di silenzio, una sorta di rimozione collettiva come se il suo straordinario operato con il tempo non venisse più riconsiderato.

Sebbene il figlio, Amico Dolci, abbia portato avanti il lavoro del padre nel Centro Studi e Iniziative per la Piena Occupazione e il Centro per lo Sviluppo Creativo, questa sorta di censura sembra essere più marcata proprio nel nostro paese, in quei luoghi che hanno visto le straordinarie battaglie di civiltà condotte da Danilo Dolci in prima linea, subendo condanne e ingiustizie.

Giuseppe Maurizio Piscopo, maestro elementare, compositore, musicista, gli rende onore con un libro importante che raccoglie non solo la cronologia delle innumerevoli azioni umanitarie compiute da Danilo Dolci in tutta la sua vita, ma attraverso interviste e memorie personali, costruisce un puzzle completo in cui ogni tessera del mosaico ha un senso proprio perché collegata a tutte le altre.

A tutto ciò si aggiunge anche un omaggio musicale, una preziosa composizione dal titolo Spine Sante scritta da Piscopo in memoria di Dolci e raro materiale fotografico d’archivio che ritrae momenti della storia siciliana e delle battaglie per la sopravvivenza soprattutto nei territori di Partinico, Trappeto e Montelepre.

Dal libro emerge nitida la visione del grande intellettuale e sociologo: l’umanesimo si deve realizzare concretamente passando dal pensiero all’azione. Stare a contatto con la gente, capire le necessità della vita quotidiana, verificare i bisogni non soddisfatti. Proprio questa vicinanza al popolo gli permette di comprendere l’importanza del lavoro, dell’occupazione e della solidarietà tra i ceti più fragili. Le lotte di Dolci sono state sempre caratterizzate dalla non violenza e la sua filosofia improntata dal metodo “maieutico reciproco”, ossia dalla possibilità nell’interazione con l’altro di uno scambio di idee, emozioni, progetti che potessero arricchire entrambi gli interlocutori.

Il libro è molto accurato nel descrivere gli eventi che hanno caratterizzato la Sicilia e l’area di Partinico in particolare nel periodo tra gli anni 50 e 70: l’analfabetismo, il dilagare del fenomeno mafioso, la mancanza di strutture primarie e di acqua, la povertà, le condizioni nelle carceri. Viene ricordata la sua protesta non violenta, lo sciopero alla rovescia (i disoccupati venivano impiegati nelle più varie attività come la costruzione di strade), il digiuno per un bambino morto per inedia.

Banditi a Partinico pubblicato nel 1955 aveva un titolo ambiguo: in realtà non si riferiva alla sola problematica malavitosa del territorio ma soprattutto allo stato di emarginazione e di alienazione in cui versavano i cittadini in quegli anni terribili. Fu la voce forte e chiara di Danilo Dolci a richiamare l’attenzione mondiale su questo problema (si ricordano gli interventi di Jean Paul Sartre, Bertrand Russel e l’Abbeè Pierre).

Il libro è arricchito da numerose interviste che regalano diversi punti di osservazione del fenomeno socioculturale innescato da Danilo Dolci: c’è il ricordo di Nino Fasullo che sottolinea il rapporto stretto con i giovani in difficoltà e il rapporto conflittuale con le autorità ecclesiastiche (il cardinale Ernesto Ruffini in particolare); c’è la memoria di Pino Lombardo e lo stupendo rapporto instaurato coi bambini e la consapevolezza dell’importanza di un mezzo di comunicazione come quello radiofonico durante il terremoto del Belice nel 1968; ci sono le splendide parole di padre Cosimo Scordato che accosta la figura di Danilo Dolci a quella di don Lorenzo Milani proprio per la vicinanza ai ceti più deboli e per il ricorso alla non violenza: “Un uomo che ha cercato di essere uomo”; c’è l’intervento della volontaria Maria Di Carlo che ricorda uno scontro importante avvenuto per delle calunnie che cercavano di infangare il nome del grande intellettuale; c’è la testimonianza di Marco Simonelli sul metodo maieutico e sulla differenza tra trasmissione e comunicazione nel dialogo con l’altro; ci sono i commenti del Prof Giuseppe Carta sui convegni a Palma di Montechiaro e sulle questioni di urbanistica e di città a misura d’uomo; c’è l’intervento di Gianluca Fiusco che racconta l’esperienza di Riesi e la ricerca della reciprocità umana come
percorso di pacificazione; il ricordo di Salvatore Di Marco sulla mobilitazione delle masse contadine di Partinico e sulle lotte per la diga dello Jato e la differenza con le forme di protesta di matrice comunista basate sulla lotta di classe.

A chiudere il libro viene proposta una conversazione tra Leonardo Sciascia e Danilo Dolci avvenuta nel 1965 in cui i due intellettuali discutono sul potere della parola e del linguaggio nello scuotere le coscienze.

Infine la difesa di Piero Calamandrei che nel 1956 cercò di dimostrare ai giudici che l’arresto di Danilo Dolci, che aveva impegnato dei giovani disoccupati per ricostruire una strada senza autorizzazione, era una contraddizione giuridica in termini: il fatto davvero non sussisteva. La postfazione di Amico Dolci che ha ricevuto il testimone dal padre e continua attualmente la sua opera, ci riporta all’essenza stessa del
messaggio profondo lasciato da Danilo Dolci. Si deve iniziare dalle nuove generazioni, dai bambini, e insegnare loro che l’impegno individuale diventa coscienza collettiva e forza dirompente che può smuovere la lentezza e la pesantezza della macchina statale burocratica.

Non bisogna voltarsi indietro e fermarsi. Bisogna guardare avanti con idee ben precise nella propria mente. Idee che non pensano al benessere materiale individuale ma che si allargano a un miglioramento delle condizioni di vita per tutti. Il percorso è stato segnato da Danilo Dolci proprio nel significato profondo di collettività. Il futuro, il vero futuro, non si trova alle nostre spalle.