«In Alaska a Natale? Ma tu sei pazzo! Io vengo dal centro del Mediterraneo, là morirei assiderato in poche ore. Perché non andiamo in California, invece?»
«Come sei esagerato! Il clima della California in Sicilia ce l’hai sempre. In Alaska non ti capiterà tutti i giorni di andarci, e vedrai paesaggi stupendi. E poi dove andiamo noi non fa molto più freddo di qua

“Qua” era Seattle, dove mi avevano mandato per tre mesi per istruire il nuovo collega che sarebbe diventato il mio omologo negli stati dell’Ovest, e dato che era un italo-americano il Direttore Generale aveva stabilito che andassi io.

Mario, il mio collega, era nato in Italia ma da piccolissimo si era trasferito con la famiglia a New York, e solo da pochi anni si era spostato nel nord-ovest. Proprio quell’anno aveva deciso di accettare l’invito di un suo vecchio amico newyorkese, che faceva il medico in una cittadina a qualche centinaio di chilometri da Anchorage, la capitale.

Con Mario ci conoscevamo da poche settimane, ma aveva già capito che a me piacciono i paesaggi estremi, così non gli fu difficile convincermi a sfidare il grande freddo e andare anch’io.

Arrivammo ad Anchorage con un normale volo di linea e la prima sorpresa fu dovere proseguire verso Cicely, la nostra meta, con un aereo da turismo la cui cabina aveva le dimensioni di una utilitaria. Tuttavia il volo fu relativamente tranquillo e grazie alla nitidezza del cielo potemmo ammirare i paesaggi mozzafiato che ci passavano sotto. Uno spettacolo davvero unico.

La seconda sorpresa mi aspettava a destinazione, perché Cicely, definita da Mario una cittadina, era in realtà un paesotto di nemmeno mille abitanti, abbastanza trasandato per di più e con innumerevoli immagini di corvi di tutte le fogge e dimensioni, appese dappertutto.

Arrivati allo studio di Joel, l’amico di Mario, mentre loro ricordavano gli anni della scuola e i loro vecchi compagni e professori, io feci la conoscenza della segretaria di Joel.

Marylin era un’indiana di una delle tribù superstiti, di età indefinibile, piuttosto bassa e grassa, con capelli neri e lisci che le circondavano la larga faccia tonda, su cui aveva perennemente stampato un sorriso alla Monna Lisa. La caratteristica principale di Marylin era che non si scomponeva mai, era sempre imperturbabile, non alzava mai la voce e parlava dicendo solo lo stretto necessario o limitandosi a rispondere con aria serafica «ah, ah» oppure «uhm.» Nel complesso era un tipo simpatico.

Alla mia domanda su cosa significassero tutti quei corvi appesi, mi spiegò che era una tradizione dei nativi e che per tutti gli abitanti di Cicely, nativi e non, «niente è meglio di un corvo nero come la pece per entrare nello spirito natalizio» mi disse. «Ma se ne vuoi sapere di più vieni domani sera allo spettacolo

L’indomani sera, al teatro (che non era altro che un capannone all’uopo attrezzato), ebbi conferma di una cosa che avevo già notato durante il giorno, girovagando per il paese. Il fatto, cioè, che gli abitanti, bianchi e pellerossa, erano perfettamente integrati fra loro.

Lo spettacolo, con gli attori che indossavano costumi tipici delle tribù indiane, fu molto suggestivo e scoprii perché i corvi venivano celebrati con tanto calore.

«Tantissimi anni fa, il corvo, volando alto nel cielo, guardò sulla terra e vide che l’umanità viveva al buio. La sfera del sole era tenuta nascosta da un vecchio re egoista, così il corvo si trasformò in un ago di abete e si tuffò nel fiume dove la figlia del re andava ad attingere acqua.» La voce narrante era Marylin, che impersonava la figlia del re, la principessa Sasitna, mentre un ballerino con un copricapo a forma di testa di corvo, con un becco enorme, impersonava il protagonista della storia, il corvo, e ballava al ritmo dei tamburi. «La fanciulla bevendo ingoiò l’ago, rimase incinta e diede alla luce un bambino che era sempre il corvo sotto altre sembianze. Il bambino pianse, pianse finché il vecchio re non lo lasciò giocare con la palla di luce. Appena ottenuta la sfera del sole, il corvo ritornò sé stesso e volò alto nel cielo con la luce e da allora noi non viviamo più nell’oscurità

Più tardi, a casa di Joel, dove eravamo ospiti, mi sintonizzai sull’unica stazione radio di Cicely, ma invece della musica che mi aspettavo di ascoltare sentii narrare un’altra leggenda, cristiana questa volta, arricchita da un ricordo personale di Chris, il conduttore.

«“Io, disse la mucca bianca e nera, gli darò la mia mangiatoia per farne un letto, gli darò il mio fieno per poggiare il capo, io, disse la mucca bianca e nera. Così ogni animale, trovata la parola, nella fredda stalla fu lieto di dire qual era il suo regalo per il bambino, qual era il suo regalo per il bambino”. Secondo quest’antica leggenda, la vigilia di Natale tutti gli animali si inginocchiano e parlano, celebrando le lodi del bambino Gesù. Ricordo il Natale del ’69» proseguì Chris, «la vigilia di Natale ero solo, rimasi in piedi fino a tardi per vedere se il mio cane avrebbe parlato e lui lo fece. Non ricordo esattamente cosa disse, ma non ha importanza. Quello che conta è che un ragazzo di sette anni possa credere ancora alle favole. Cosa voglio dire? Ecco, che il Natale significa per ciascuno di noi qualcosa di diverso, può essere sia sacro che profano, è comunque Natale, è tante cose per tanta gente e ognuno ha la sua parte, è come … è come il sacco di Babbo Natale, dentro ci sono regali per tutti. Il mio augurio per il vostro Natale è che il vostro cane parli.»

Buon Natale ai miei quattro lettori.

Liberamente tratto da “Un Medico Fra Gli Orsi”, serie 3 episodio 10, Buon Natale, Cecily.

Di Salvatore Azzuppardi Zappalà

Salvatore Azzuppardi Zappalà, scrittore, è nato e vive a Catania. Dopo la laurea in Scienze Politiche ha lavorato come bancario e poi consulente finanziario indipendente. Specializzatosi in Diritto Bancario è anche consulente tecnico-legale su contratti di finanziamento e investimento. Ama le buone letture (i suoi pilastri sono Victor Hugo, Hemingway, Steinbeck, Conrad e Garcia Marquez), la buona musica italiana ed è appassionato di storia, in particolare della Seconda Guerra Mondiale. Su quel tragico periodo ha collezionato testimonianze di vita vissuta, che ha raccolto nell’antologia 1943-1945. Per non dimenticare. Nel suo primo romanzo – “Ti ricordi quella strada …​“, Algra Editore – l’Italia degli anni Settanta fa da sfondo alla storia di Lia e Francesco, in questo che non è solo un romanzo storico, di formazione e di sentimenti (non sentimentale, però), ma un tributo a uno dei periodi più controversi della nostra storia repubblicana. Non solo anni di piombo, ma soprattutto anni fertili, gli anni dell’impegno in politica e nel sociale, gli anni in cui si prese coscienza delle problematiche ambientali e dell’importanza della partecipazione.