Raccontano i nostri maggiori che nei tempi antichi, ma antichi assai, visse un uomo ricco sfondato, un signore che amava viaggiare senza limiti, mosso dal piacere di scoprire il mondo. Un giorno, durante uno dei suoi viaggi, si trovò a fronteggiare una terribile tempesta di mare. A bordo di una piccola barca, fu sbattuto dalle onde per tre giorni e tre notti, sfiorando più volte la morte per fame e stanchezza. Ma, come accade nelle storie che sembrano miracoli, un’enorme ondata lo spinse infine su una terra sconosciuta: la nostra terra. Quel luogo, selvaggio ma pieno di abbondanza, gli offrì frutti e altre risorse che gli permisero di sopravvivere. Si saziò e si riprese, ma soprattutto, si innamorò di quella terra che gli parve un vero paradiso terrestre. Non c’era anima viva nei dintorni, ma la natura, generosa e incontaminata, sembrava una promessa di vita e prosperità. Fu allora che prese una decisione che avrebbe cambiato tutto: da uomo immensamente ricco quale era, decise di trasformare quel luogo deserto in una città splendente. Chiamò a sé ingegneri e capimastri, finanziò lavori colossali e diede vita a una città che divenne un gioiello del Mediterraneo. Il suo nome? Palermo.

Così, almeno, dice la leggenda: il nome della città deriverebbe proprio da quello del suo fondatore. In segno di gratitudine e memoria, gli stessi ingegneri che costruirono la città scolpirono una statua di marmo che lo raffigurava e la collocarono in una piazza che oggi conosciamo come Piazza Rivoluzione. Questa storia, sebbene fantasiosa, racchiude elementi di profonda suggestione. Palermo non nasce davvero così: il suo nome deriva dal greco Panormos, che significa “tutto porto”, a indicare la conformazione naturale della baia. Racconti come questo, tuttavia, sono fondamentali per comprendere come le comunità abbiano immaginato e narrato le origini della propria terra. Attraverso il mito, si celebrano la bellezza del luogo, la sua abbondanza e il legame spirituale tra gli abitanti e la loro città.

E poi, c’è quella statua che lega mito e realtà. A Palermo, sulla Piazza Rivoluzione, si trova ancora oggi il Genio di Palermo, figura mitologica e simbolo della città. Che sia il protagonista della leggenda o una semplice coincidenza, rimane un fatto: in ogni angolo di questa città si intrecciano storia e immaginazione, lasciando spazio alla meraviglia e al desiderio di saperne di più.

Ho tratto questa leggenda dall’Almanacco Popolare Palermitano a cura di Rosario La Duca.
Ecco il testo di La Duca che così la presenta

La leggenda del vecchio Palermo

Raccontano i nostri maggiori che nei tempi antichi, ma antichi assai, c’era un Signore ricco sfondato, che andava viaggiando di qua e di là per suo piacere. Una volta fu sorpreso da una grande tempesta di mare, mentre si trovava dentro una piccola barca, sbattuto di qua e di là, fu miracolo che il mare non l’inghiottisse; e dopo tre giorni e tre notti di tempesta, quando stava per morire di fame e di stanchezza una grande ondata lo gettò con tutta la barchetta sopra questa terra nostra. Volta e gira, non c’era nessun abitante, ma c’era le provvidenza di Dio in frutta e altre cose da mangiare, e quel Signore, ch’era già mezzo morto, si riconfortò e saziò appieno. Ciò fatto quel Signore s’innamorò di questa terra, che gli parve un vero paradiso terrestre e poiché non c’era nessuno, ed egli era ricco quanto mai, pensò di fare venire qui molti ingegneri e capimastri e fece fabbricare questa bella città di Palermo. Si chiamò così, perché fu lui che la fece fabbricare, e lui si chiamava Palermo. Gli stessi ingegneri e capimastri, che la costruirono, fecero una statua di marmo al Signore riccone, padre e patrono della città, che poi divenne vecchio, e questa statua è quella che si trova sulla piazza della Fieravecchia.

A proposito di questa leggenda, lo stesso Pitrè scrisse: Guardando dal Pellegrino la grande città ed il mare ceruleo si comprende come potesse nascere la leggenda che fa giungere ai nostri lidi, dopa lunga e disastrosa navigazione, un ignoto viaggiatore. Si comprende com’egli, riavutosi, rimanesse estatico alla contemplazione di questa terra, ricca di ogni ben di Dio e felice del più bel cielo del mondo; perché, stabilito di mai più allontanarsene, vi chiamasse architetti e manovali e vi edificasse la città che poi fu detta Palermo. , in memoria di che fu scolpita la statua in marmo oggi ammirata alla Fieravecchia. Leggenda prettamente fantastica codesta, la quale, nondimeno, si richiama al genio di Palermo raffigurato dal vecchio re coronato, che nel centro de quella antichissima piazza se ne sta placidamente seduto con un cane al piede (fedeltà) e avvinghiato al braccio un grosso serpente (prudenza), la cui testa esso si reca imperturbabilmente al cuore per farsene succhiare il sangue. Che se a questa strana figura aggiunse il motto leggendario di altre simili statue in Palermo: “Alienos nutrit, se ipsum devorat”, troviamo la sua spiegazione: che questa benedetta città fa gran festa, dà lautamente da vivere agli stranieri e poi trascura propri figli. Il fatto non è forse unico né raro, ma il vederlo ab antico esplicitamente perpetuato tra noi, fa credere che qualcosa di singolare possa avere avuto esso in Palermo; altrimenti come spiegare la successione infinita di dominatori stranieri in Sicilia la cui chiave è Palermo? Come le simpatie che trovano fra i palermitani i forestieri e le cose loro?

Il racconto colpisce già dal titolo, scritto in elegante Old English text.

Fuori moda! Però, che raffinatezza! Quando si usava la bella scrittura era quasi d’obbligo
presentare i testi colti con simili eleganze.

Per chi volesse cimentarsi in esercizi di calligrafia suggerisco di cercare il testo di Rodolfo Dugo dal titolo Modelli di Calligrafia, Pavia, 1911 (penso in una libreria di antichi testi). Io ne posseggo una copia.

Ciò che colpisce di questi caratteri sono gli svolazzi. Ecco cosa scrive l’Autore a proposito:

Gli svolazzi non s’insegnano agli alunni, perchè difficili ad eseguirsi, richiedendo una
mano perita e molto slanciata. Si costruiscono tenendo il manichetto della penna col
pollice, Indice e medio della mano destra e diretto divergentemente verso l’orlo
superiore del quaderno in modo da formare coll’ allineamento inferiore un angolo di
45º circa. La mano, per essere più slanciata, non deve toccare la carta, e la penna
cosi tenuta segna i filetti, quando essa striscia in senso contrario, e i pieni, quando
striscia per il suo giusto verso.

Lo studio degli svolazzi serve per poter eseguire le maiuscole della scrittura italiana a
punta acuta e per adornare alcuni caratteri, come a dire i goti gotici, il rotondo e,
quando occorra, anche gli stampati.
Gli svolazzi servono ad abbellire una epigrafe, un frontespizio, facendo essi spiccare
maggiormente i caratteri.
Bisogna stare bene accorti nei vari svolazzi, di non fare incontrare due pieni insieme,
perché l’estetica ne soffrirebbe.
Ecco le norme generali di questo importante insegnamento della formazione dei
caratteri, i quali costituiscono in seguito l’autenticità personale dei nostri atti e scritti.
Chi conosce l’importanza che ha nel mondo la firma, deve persuadersi della
necessità di presentarla sotto la forma più chiara, più distinta, più ornata.

Se Pensate di inviare auguri di buon Natale vi suggerisco di ritornare ai maggiori antichi, ma antichi assai… Io non resisto alla tentazione e quindi:

Tantissimi auguri! Buon Natale e felice anno nuovo.