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di Maria Grazia Lala

Nella ricevitoria, collocata al pianterreno del mezzanino di proprietà di Carmela, lei si affannava a cucinare la salsa nel pibigas e a rincorrere suo figlio Mariuzzo brandendo un cucchiaio di legno. Negli ultimi tempi, Petra entrava ogni giorno in quello che era il magaseno per la conservazione del grano e delle botti di vino nell’ampio stanzone dell’ingresso che era stato adibito nel 1921 a collettoria postale dal padre di Carmela. 

Petra, prima ancora di mettere piede nell’ufficio, sentiva l’odore acre del mosto o l’aria resa più secca dai sacchi di grano o di mandorle, secondo la stagione, ammonticchiati nel retro del bancone e nascosti alla vista da una grande tenda bordeaux.  

Entrava e a Rosario, il supplente della ricevitoria, faceva sempre la stessa domanda da circa tre anni.

– Che arrivò stamattina?

Il ragazzo si alzava, andava nel retro, faceva finta di rovistare nelle carte sul tavolo, dove era poggiato l’apparato telegrafico e rispondeva:

– Pitrina , oggi non c’è niente. Aspettiamo.

– Va bene, Rosario passo domani – faceva eco la voce della giovane, che andava verso il pianterreno  della casa di Carmela, un giorno con un velo nero in testa e il giorno successivo con i capelli lunghi e sciolti, dritta e fiera come Maria José, la moglie del Re di Maggio.

 Carmela, la titolare della ricevitoria postale di terza classe, si affacciava dal vano della scala interna che collegava la sua cucina al magaseno promosso ad ufficio e ripeteva:

–  Petra è convinta che Agostino ritornerà, come il marito di Elisabetta. Intanto a quello l’avevano mandato in Grecia al sole e al mare! Invece Agostino l’hanno spedito alla neve e al ghiaccio.

Rosario, lo sciancato, la guardava e pensava “certo a ventun anni è vedova senza essere stata maritata, mentre la bagascia di Carmela non è né vedova né maritata: ha Mariuzzo e la ricevitoria.”

Allo sciancatello Pitrina piaceva tanto e la differenza d’età, di circa tre anni, a Rosario non importava. Se avesse potuto avrebbe falsificato qualunque documento per liberarla dal vincolo indissolubile di un matrimonio in articulo mortis celebrato in fretta e furia con il giovane Agostino spedito in Russia.

Carmela non era una gran bellezza, ma era l’unica figlia del titolare della collettoria del paese; il padre la considerava come la luce dei suoi occhi e l’aveva nominata sua supplente. Oltre la dote garantiva così la possibilità di un lavoro anche all’uomo che l’avrebbe sposata, ma non fu così: la nomina di supplente della ricevitoria postale fu la rovina di Carmela e il profitto di Don Cola.

Prima che l’impiegato del dazio ricevesse dal titolare della concessione i fonogrammi o i marconigrammi spediti dalla capitale, con liste di prezzi del latte appena munto o della carne delle bestie macellate, quei numeri li leggeva don Cola. Il podestà speculava su ogni genere di merci e non pagava dazio: gli zavurdi non capivano perché avrebbero dovuto pagare tasse sulle lenticchie che riuscivano a vendere o sulla carne del crasto macellato.

– La bagascia fa fare i picciuli a Don Cola, invece lei e suo padre hanno solo gli occhi chini e i manu vacanti – pensava lo sciancatello.

Ma il vero guaio l’avrebbe potuto passare solo il padre di Carmela, titolare della concessione ministeriale che in verità era un  cristiano onesto ed un buon padrone e mandava avanti la ricevitoria come se fosse la sua bottega.

La consegna  da parte di Rocco del sacco con la corrispondenza avveniva solitamente intorno alle nove del mattino; se malauguratamente ritardava, il titolare iniziava la predica:

– Rocco sei il Procaccia! Ricordati il codice postale è una legge. Tu, anche se sei uno zavurdo in groppa allo scecco, hai un itinerario stabilito e un tempo assegnato per portare gli effetti postali sino qui! – e concludeva con la stessa domanda – Ce l’hai il foglio con tanto di timbro e firma, del ritardo del treno?”

Aperto il sacco, il buon padrone distribuiva le buste ai quattro cristiani che già erano davanti al bancone e aspettavano. Aspettavano in piedi, giorno dopo giorno, finché non arrivava quella benedetta lettera tanto sospirata.

Diversa era la storia dell’apparato telegrafico nascosto dietro la tenda bordeaux: se picchiettava in un certo modo erano brutte notizie che viaggiavano veloci. Il vecchio titolare era un esperto dei punti e delle linee misteriosamente impresse sul rotolo di carta del telegrafo, ma sua figlia non capì mai il sistema dei segnali, mentre a Rosario lo sciancatello erano bastati pochi mesi da quando aveva iniziato a lavorare alla ricevitoria per imparare sia il Morse che il metodo Baudot.

Quel ticchettio anticipava le brutte notizie, che venivano trascritte dal titolare della ricevitoria su un foglio giallo, con la sua calligrafia piena di svolazzi e riccioli alle S , le L e le F.

 Poi, al primo che passava davanti alla persiana del magaseno, faceva un piccolo cenno della mano roteando l’indice e il medio uniti.                                                                                                

Cu muriu ?- chiedevano gli adulti  che sapevano del telegrafo; quando toccava ai picciriddi, questi  spensierati domandavano– A cu a chiamari?

Il padre di Carmela ricordava della morte di un giovane, annunciata dalla carta perforata dell’apparato, eppure quel lutto per la famiglia più disgraziata del paese sarebbe stata la notizia migliore che avrebbe cambiato la ruota della fortuna.  Conosceva bene il viaggio terreno di quella giovane vita, perché era passata attraverso una serie di perforazioni impresse nel rotolo.

La storia cominciava da un abbandono di un bambino davanti a un istituto maschile della Compagnia di Gesù. Era stato lasciato lì, come un pacco, da un povero mischinazzu del paese rimasto vedevo con uno sciame di figli. Alla nascita del picciriddu aveva assistito una vicina di casa della puerpera che si era sbrigata in quattro e quattr’otto, ma dopo pochi minuti aveva esalato l’ultimo sospiro. Chiamarono la mammana che non riuscendo a dare nessuna spiegazione di quella morte improvvisa disse:

– Non camperà neanche la creatura, non pesa neanche un chilo.

Misteriosamente sopravvisse, con qualche sorso di latte di capra allungato con l’acqua, pietosamente portato da un picuraru ai dieci carusi rimasti orfani.

– Farò la volontà del Signore e restituisco il regalo – pensò il vedovo.

Così depose la cartedda davanti all’istituto, restituendo il dono al legittimo Proprietario. I gesuiti ritirarono la cesta credendo che fosse un omaggio di qualche contadino. Dentro non c’era uva zibibbo, ma non ebbero il cuore di disfarsene. La creatura, per pronto accomodo, venne affidato alla cammarera che cucinava per i preti; crebbe rachitico e con una vistosa deviazione della colonna vertebrale, in mezzo alle preghiere e ai dibattiti teologici degli Ignaziani.

I gesuiti presto si resero conto che il cervello del bambino era un dono di Dio: a quattro anni sapeva recitare in latino tutte le preghiere e ripetere a memoria alcuni brani della lettera ai Corinzi.

La notizia del prodigio arrivò a Roma, all’orecchio del Preposito Generale che lo volle ascoltare.                  – Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore…- la voce usciva dal suo torace carenato e deforme – Ora vediamo come in uno specchio, in maniera oscura, ma allora vedremo in modo chiaro, faccia a faccia; adesso conosco soltanto in modo imperfetto, allora invece conoscerò come sono conosciuto. Ora, dunque, rimangono la fede, la speranza e l’amore. Ma quello più importante di tutti è l’Amore.   

A Roma, in quella sala del Collegio Romano, neanche San Paolo pronunciando quelle parole  avrebbe tanto commosso gli astanti e il loro papa nero che sentì la pressione di una lacrima che non riuscì a uscire. Amore detto da quella misera creatura acquistò significato.

Il preposto decise che il bambino rimanesse nella capitale e continuasse a studiare; non entrò nella congregazione perché nano e deforme. San Paolo in quella lettera diceva che “nelle liti per cose di questo mondo voi prendete a giudici gente senza autorità nella chiesa”, fu così il papa nero lo volle avvocato, perché riconobbe in lui un’anima giusta e possente.                                          

 Il giovane deforme ebbe una breve esistenza terrena, ma fu ricordato a lungo come grande giurista.  Quando due anni prima della guerra alla ricevitoria postale giunse il telegramma spedito da uno studio notarile di Milano e indirizzato ai fratelli sopravvissuti del “de cuius”, i poveracci non conservavano neanche un lontano ricordo del picciriddu abbandonato. La notizia della sua morte procurò una grande contentezza per la “cui eredità si tratta” destinata a loro. In paese, tra gli sventurati, nessuno aveva mai sentito parlare di asse ereditario, di legittima e di buoni postali che tradotti significavano tanti soldi pari al valore di anni di buon raccolto e di giare ricolme di olio.  

Dopo che il titolare della concessione ministeriale morì di crepacuore, Carmela da supplente delegata divenne la reggente della ricevitoria.

Carmela non aveva testa a cummattiri con il decreto regio e l’articolo 290 del Codice postale e delle comunicazioni che la considerava una figura contabile dello Stato.  Si era rovinata e continuava a rovinarsi e finì per mettere tutto nelle mani di Rosario, il picciutteddu che portava i segni della poliomielite. Conoscendo l’onestà della famiglia e impietosito dall’offesa alla gamba, il titolare l’aveva voluto alla ricevitoria e a fine settimana gli allungava poche lire. Carmela, con la testa sbintata che si ritrovava dopo la morte del padre, mise tutto nelle sue mani. Rosario si dimostrò bravo, lesto a sbrigare le questioni con il procaccia, rispettoso con i paesani e consapevole che maneggiava piccioli, sterco del diavolo da proteggere e custodire come reliquia.

– Carmela, bisogna comprare per forza una cassaforte meccanica. Questa che abbiamo fa ridere. Lo sai che la cascia serve per custodire i modelli dei vaglia e dei buoni con l’immagine del contadino che semina. Carmè, questi fogli hanno lo stesso valore delle banconote. Poi i paesani ti portano i piccioli e noi gli sottoscriviamo il buono. Oppure vengono per scambiare i vaglia, soldi sudati dai figli che lavorano in miniera. Se non custodiamo bene i soldi, i vaglia e i buoni ti tolgono la concessione e finì u travagghiu – aveva detto Rosario, che si era dato da fare per comprare una “signora cassaforte.”

 Da Milano, dopo mesi, era arrivato un grosso armadio di ferro, con la targhetta Fichet-Bauche. La porta dell’armadio, spessa un palmo, all’esterno aveva due rondelle rotanti e due serrature con chiavi lunghe quanto lo spessore della porta. Con orgoglio Rosario spiegò alla bagascia titolare che la serratura comandata dalle due ghiere era detta “a combinazione”. Le altre, in cui giravano due chiavi lunghe e lucide, funzionavano come il chiavistello della porta del magaseno.  

In paese per mesi si parlò di quella cassaforte e dei piccioli che conservava, però qualche paesano diceva che serrate dentro c’erano anche delle forme di caciocavallo e si sentiva dal sciavuru. Era capitato che uno zavurdo per gratitudine alla supplente e al picciutteddu, aveva portato in regalo un bel pezzo di formaggio.  Rosario non sapendo dove conservarlo lo aveva messo sottochiave nella Fichet-Bauche.

La cassaforte restò a guardia di un povero mondo paesano che attraversò gli anni della guerra, poi testimone di tempi in cambiamento.

MARIA GRAZIA LALA inizia a scrivere prendendo spunto dai ricordi familiari e circa dieci anni fa
pubblica il breve romanzo dal titolo “Era un lunedì”, editore Pungitopo. Sette giorni che raccontano
una cruda realtà di un’Italia falcidiata dalla guerra e mortificata dalla discriminazione razziale. Il
libro ottiene la menzione speciale della giuria “Premio Mazara Narrativa Opera Prima”.
Il suo secondo romanzo “Sempredisabato” vede, sullo sfondo una Palermo degli anni ’70, il
dipanarsi delle storie di un gruppo di giovani che si prepara agli esami di maturità. L’opera si
aggiudica il primo premio  letterario di “Cunti e Triunfi”, concorso per la valorizzazione del territorio
indetto dall’ A. R. S. L’ultimo libro “Petra” narra di un mondo contadino alle quotidiane prese con
una società in lento cambiamento. Intorno a Petra, giovane vedova di un soldato disperso nella campagna di Russia si intrecciano vicende storiche di una Nazione segnata da due guerre mondiali e dall’ascesa del fascismo, e le storie di gente comune e di poveri contadini in una realtà rurale. Maria Grazia Lala ha svolto le funzioni di ispettore presso l’ex Ministero delle Poste e Telecomunicazioni e successivamente ha curato le Relazioni Esterne di Poste Italiane s.p.a.

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