INTERVISTA AD ALESSANDRO DE LISI, GIORNALISTA, SCRITTORE, IMPEGNATO DA ANNI NELLA LOTTA ALLE MAFIE, CURATORE D’ARTE CONTEMPORANEA PER LA FONDAZIONE FALCONE, AUTORE DEL LIBRO DAL TITOLO “UN’ESTATE A PALERMO. 1985, QUANDO I BOSS PERSERO LA PARTITA”
Alessandro De Lisi, giornalista, scrittore palermitano e curatore d’arte per la Fondazione Falcone, ha raccontato la mafia in decine di inchieste e nei suoi libri. Da anni porta avanti il suo impegno civile nella lotta alle mafie, lo fa con un linguaggio innovativo e senza retorica, attraverso mostre e progetti culturali che sensibilizzano i cittadini e coinvolgono la società civile.
Un’intervista per raccontare due epoche, quella delle stragi e quella che stiamo vivendo, per comprendere quale sia la percezione del fenomeno mafioso in Italia e nel resto d’Europa a distanza di trent’anni dalle stragi di mafia, ma soprattutto come combattere contro una mafia e una cultura mafiosa che, malgrado la tenacia ed il lavoro di magistrati, forze dell’ordine e cittadini coraggiosi, è ancora attiva e persistente.
Alessandro De Lisi è un siciliano buono che ama la sua Sicilia anche da lontano, mantenendo vivo in sé il desiderio di riscatto della sua terra, uno dei protagonisti di questa Sicilia buona che vi voglio raccontare, anche lui “inguaribile coraggioso”.
D: In una società sotto molti aspetti profondamente diversa rispetto all’epoca delle stragi, fra commemorazioni e anniversari che diventano troppo spesso irrinunciabili passerelle per i politici di turno, com’è cambiata la lotta alle mafie a trent’anni dalle stragi del 92?
R: All’epoca delle stragi, nei mesi subito successivi, il coraggio dei siciliani e delle siciliane riempì un vuoto, fu una reazione davvero popolare e corale, sterzando la storia del movimento civile italiano.
Basti pensare, ad esempio, come moltissimi vollero esporre alle finestre e ai balconi delle loro case i lenzuoli di condanna alla mafia con una dichiarazione di appartenenza alla comunità degli onesti ben più forte di una fiaccolata, di una manifestazione di piazza: quelle finestre divennero gli occhi spalancati sulla città dei tradimenti, quei lenzuoli interrogavano il Paese intero.
L’impegno politico, la reazione civica, la passione civile non era stata inquinata dal qualunquismo retorico attuale, dove tutto vale un Instagram, una corona di fiori, un disvelamento dell’ennesima funebre lapide ad memoriam.
Però non bastò, siamo ancora lontani dalla verità sulle stragi, non basta ciò che è stato sancito nelle aule giudiziarie, serve un nuovo modello sociale contro le mafie.
E certo non è nelle passerelle, bensì in un nuovo patto sociale nazionale che spinga l’Europa a indicare una strada unitaria e federalista per la confisca dei beni mafiosi, sul voto di scambio e contro la corruzione. Io sono un autore, un operaio della cultura, il mio interesse è civile e non politico, sono onorato di servire un’istituzione storica importante come al Fondazione Falcone, le considerazioni di merito e di indirizzo non spettano a me, queste righe sono solo una riflessione su come meglio combattere al solitudine sociale.
Bisogna separare senza indugi la memoria dalle celebrazioni, il ricordo dalle azioni collettive, che devono essere sostenute e incoraggiate, affiancando il lavoro della Polizia e dei Carabinieri coi magistrati, ciascuno attivo nel proprio ambito. Noi siamo la parte maggioritaria, l’arma segreta contro i clan: cultura e azione civile, mondo del lavoro, sindacati, imprese, artisti e studenti possono vincere le mafie con gioia e passione, facendo bene la propria parte all’attacco, non in difesa, non resistendo ma reagendo. Noi siamo di più e loro meno.
Oggi più che mai, occorre allenare la vista e il cuore, l’udito e la fantasia, adesso che il fragore delle bombe è sopito ma i ricatti economici e finanziari sono terribilmente aumentati.
D: Attraverso diversi progetti Lei ha parlato di mafia e di legalità anche nelle scuole. Quanto ne sanno i giovani di mafia? Ed è difficile oggi attirare la loro attenzione su questi argomenti?
R: I giovani sono oggi molto più potenti, liberi e cosmopoliti di come eravamo noi negli anni Ottanta, ma sono anche più esposti alla solitudine e alla timidezza. Serve, come ha più volte dichiarato e sollecitato Maria Falcone, un nuovo Erasmus della lotta europea alle mafie, scambiando dolore ed esperienze, declinando nuove parole tra i giovani e la comunità di chi ha il potere di agire nelle istituzioni, dando, se necessario, anche un nuovo nome alle mafie e alla mafiosità: nei Paesi del nord Europa, in alcune aree del nord dell’Italia, dire mafia significa ancora guardare verso sud, dando così un vantaggio troppo ampio ai clan che da decenni operano lontani dalle regioni di origine criminale, prosperando anche in questo equivoco linguistico e comunicativo.
D: Come si fa a trasmettere alle nuove generazioni quei valori e strumenti indispensabili per difendersi da un fenomeno certamente mutato in questi anni, ma non debellato?
R: Scoprendo parole nuove, trasformando i convegni in progetti di comunità (tanto costano uguale) e non usando i giovani come comparse perfette per lo sfondo delle fotografie dei potenti.
Serve lavorare e faticare, poi però vinciamo noi, loro sono condannati a perdere. Maria Falcone, che è la nostra guida, come lo è Liliana Segre, ha dimostrato che dando tutto della sua vita a favore dei giovani oggi si può contare su migliaia di persone adulte pronte a sfidare la pigrizia culturale interessata del potere e vincere le mafie. Basta seguire gli esempi giusti, come Giovanni Falcone, ma anche tornando a studiare educazione civica: giovani e curiosità, innovazione e coraggio, scuole e comunità. Vinciamo noi così, ne sono certo.
D: E parlando di giovani ci riferiamo spesso alla necessità e al dovere di raccontare loro la storia recente del Paese, quella di cui non hanno memoria, per passare il testimone della lotta alle mafie alle nuove generazioni. Eppure, a volte, sono proprio gli adulti a dare l’impressione di dimenticare o di essersi rassegnati di fronte alle tante verità ancora celate sulle stragi e sui rapporti fra mafia e Stato. Come si rimedia a questo?
R: Cambiando i linguaggi, non lasciando la scuola da sola quale unica occasione di formazione delle ragazze e dei ragazzi che vivono e abitano il presente politico dell’Europa, ad esempio. L’arte può essere risolutiva, poiché aiuta a portare l’educazione civica nelle piazze, mette assieme cultura e politica.
D: Da molti anni Lei vive nel nord Italia e spesso per lavoro si sposta in diverse città europee. Qual è oggi la percezione del fenomeno mafioso in Europa? E quale la percezione in Italia trent’anni dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio?
R: La mia esistenza e dove vivo credo sinceramente non interessi a nessuno, sono uno dei moltissimi siciliani emigrati nelle miniere, nelle fabbriche e nelle istituzioni. Noi siciliani addolorati dal nostro esilio crediamo che faticare è meglio che essere assistiti dalla società delle promesse, oggi come negli ultimi sessanta anni. Io ho l’onore di servire la Fondazione Falcone, un privilegio culturale che riguarda direttamente pochissime persone e questo per uno come me equivale ad un premio senza pari: servire la Fondazione Falcone è come tornare a casa ogni giorno e servire la Sicilia più bella, buona, sana e con le carte in regola.
Questo è stato possibile perché sia Maria Falcone che suo figlio Vincenzo Di Fresco, fondatore e consigliere di riferimento, sono degli inguaribili coraggiosi, degli editori straordinari e non si rassegnano alla superficialità della testimonianza: il patrimonio di vita di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino è enorme, le loro innovazioni e le loro azioni contro Cosa Nostra hanno determinato trasformazioni sociali tali che oggi, ancora più sicuramente nel prossimo futuro, mette l’Italia al vertice internazionale per consapevolezza e strumenti antimafia, sia socioculturali che giuridici.
Vivo spesso Bolzano, che considero la nuova Ventotene per un moderno federalismo europeo della memoria, delle autonomie che sono responsabilità e non egoismo, e la mia famiglia vive a pochi minuti dalla Svizzera, vivo l’Europa perché è una frontiera della modernità, il nostro West.
Ma non dimentico che vengo da una famiglia di ferrovieri, di persone impegnate e perbene, dalle scuole statali, dai quartieri storici, dalle lauree prese da fuori sede, dalla politica a voce alta, oggi trasformata in squadre e corti, purtroppo. Insomma sono stato e resto un siciliano di lotta e di avventura, di fatica e tutto questo si rintraccia in ogni mio pensiero, forse perché davvero ancora penso in siciliano, anche quando parlo francese.
D: Lei ha curato diversi progetti culturali e mostre d’arte per la Fondazione Falcone. In che modo l’arte diventa non solo simbolo, ma strumento di riscatto civile?
R: L’arte è una calamita cosmica. Unisce le generazioni, trasforma la comunità e gli spazi collettivi. Altrettanto può essere un rischio, bisogna lavorare a progetti di comunità che tolgano la presunzione e lo snobismo tipici del mondo dell’arte e così escludere con gusto quegli artisti che si credono divi, indispensabili e famosi.
I nostri progetti d’arte sono il contenuto del patto di società con la comunità, non sono mostre, non rivendicano spazio nel mercato dell’arte, non esistono senza la piena coesione sociale tra Soprintendenza alle Belle Arti e imprese, tra istituzioni e autori, tra giovani studenti e comunità del lavoro. Non è roba per salotti, o rivoluzione o niente. Anche se la nostra rivoluzione è gentile, si ispira alla sempre attuale riflessione politica di Alex Langer, il leader altoatesino ecologista, cattolico e pacifista purtroppo morto troppo presto: lentius, profundius e soavius, così serve oggi profondità, con leggerezza e giusta lentezza.
D: Il suo ultimo libro s’intitola “Un’estate a Palermo. 1985, quando i boss persero la partita” edito da Nuova Dimensione. Un romanzo in cui ritroviamo la Sicilia di quegli anni e il coraggio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in un periodo particolare delle loro vite, quando sono costretti a continuare il loro lavoro di magistrati all’Asinara. Perché ha scelto di raccontare proprio quel periodo?
R: Perché è l’alba del tempo del tradimento. Il tradimento di una città e dei colleghi, anche degli amici, a danno del pool antimafia, di Falcone e di Borsellino in particolare. L’invidia fa più male della mafia in Sicilia: temo che se può esserci davvero un elemento altamente tossico nell’essere siciliani in Sicilia, oggi come allora, è proprio l’invidia. Ma vedremo anche presto, con la seconda puntata del romanzo in uscita l’anno prossimo, la reazione civile della Sicilia migliore, capace di spalancare in quegli anni le braccia alle migliori energie internazionali sia culturali che civili, cosa che forse oggi manca, mentre si continua a confondere l’orgoglio con la presunzione.
D: Le manca la Sicilia? Quali pensieri le suscita la sua terra d’origine ogni volta che torna?
R: Io penso in siciliano anche quando parlo altre lingue come dicevo, quando scrivo e quando piango.
La mia Sicilia è uno spazio privato, dove ritorno ogni giorno con la mente e con il cuore, nostalgia indispensabile per la poesia, per l’amore e per la lotta.
Quando torno però vedo che non si vuole davvero innovare, si teme la verità: si parla di movida ma la fatiscenza del centro storico di Palermo non ha nulla di spensierato e di esotico, come è una vergogna la gestione dei rifiuti, la città è sporca e non è attrattiva così, come invece potrebbe davvero essere Palermo, molteplice e internazionale.
Tutti i palermitani girano la testa verso il mare ogni volta che devono iniziare a raccontare la propria città, anche perché è più presentabile quel blu rispetto al nero dell’abbandono, dello squallore e del compromesso. Ecco, se tornassi a Palermo lotterei per una città bella e luminosa quanto il suo mare, come quella che sognavano e volevano Falcone e Borsellino.
La mia Sicilia è nel sangue e nel latte delle mie scelte, il dolore e la rinascita in ogni cosa, il dovere e la leggerezza, la fame e la sazietà. La Sicilia è una condizione morale per noi emigrati, restiamo male per la sua trascuratezza dovuta ad una classe politica spesso inadeguata, non certo per vocazione antropologica, restiamo male se non ne sentiamo però il profumo di origano, mare, sale e sangue.
Siamo fatti così, siciliani senza speranze che credono nel futuro.